La modifica del patto di stabilità europeo, su cui Mario Draghi ed Emmanuel Macron hanno scritto un impegnativo intervento sul Financial Times, ha un significato diverso a seconda delle latitudini geografiche e politiche, tanto rispetto ai rischi impliciti, quanto ai benefici attesi. Il patto di stabilità, infatti, non è un insieme di regole contabili, ma il fondamento costituzionale della coesione economica di un’area monetaria comune con diciannove politiche fiscali diverse.
La censura sulla complessità e opacità delle regole del patto, lamentata da Draghi e Macron, in Italia sembra riecheggiare il giudizio liquidatorio di Prodi sugli «stupidi parametri di Maastricht», che venne inteso dalla sua parte politica e anche, a dire il vero, da quella contrapposta, non nel senso di una eccessiva rigidità rispetto all’andamento del ciclo economico – su cui intervenne, in seguito, il Fiscal Compact – ma in quello della natura ontologicamente economicida dell’equilibrio di bilancio, che non lascia ai Paesi meno competitivi alcuna alternativa tra il fare torto e il patirlo, cioè tra il truccare i bilanci (come in Grecia, per sottrarsi al giogo tedesco) e il sottomettersi al dominio straniero, come da destra e sinistra si è detto ai tempi del Governo Monti, anche da parte dei suoi iniziali sostenitori.
Per paradosso, fu proprio Monti, prima come commissario europeo al mercato interno, poi come presidente del Consiglio italiano, a chiedere inutilmente l’inserimento di una golden rule (cioè lo scomputo dal rapporto deficit/pil di alcuni investimenti produttivi) nel Patto di stabilità.
Ma mentre il presidentep della Bocconi, come oggi Draghi, era perfettamente consapevole dei rischi connessi a questo strumento (ad esempio la saturazione dello spazio fiscale con le spese correnti e l’incentivo alla demagogia finanziaria), chi oggi in Italia chiede di potere investire di più in genere chiede semplicemente di potere spendere di più, in un sistema in cui la spesa pubblica rimane il maggiore fattore di consenso politico.
Così, si capisce anche perché il sospetto sulle intenzioni italiane, malgrado la garanzia di Draghi, continui ad aleggiare in molti degli Stati cosiddetti frugali, proprio perché Draghi, pur sedendo al vertice delle istituzioni di governo, non rappresenta affatto le opinioni e gli indirizzi di un sistema politico che, un anno dopo, è rimasto, tale e quale, quello dell’era del Conte bifronte.
E si capisce anche perché l’offensiva degli Stati sud-europei, guidati da Francia e Italia, si giochi in termini di credibilità innanzitutto in casa, cioè all’interno di quegli stessi Paesi che chiedono più flessibilità e che devono dimostrare di non volerla interpretare in chiave puramente lassista.
La cosa che infatti in Italia sembra sfuggire è che una discussione davvero europea sul patto di stabilità, a partire dalle sfide individuate dai presidenti francese e italiano – «investimenti su larga scala nella ricerca, nelle infrastrutture, nella digitalizzazione e nella difesa» – implica necessariamente un coinvolgimento delle istituzioni europee nell’implementazione delle nuove regole e che non esiste né politicamente, né istituzionalmente la possibilità di separare il piano della solidarietà da quello del controllo, come è avvenuto con il Next Generation Eu, che è peraltro una prova eccellente della flessibilità del quadro economico europeo e della sua capacità di adattarsi alle emergenze e agli imprevisti.
Qualcuno ricorderà che non più di un anno fa il sempiterno ministro Luigi Di Maio invocava i soldi del Recovery Fund per «abbassare le tasse e uscire dalla crisi»: ecco come la politica italiana interpreta di norma la solidarietà europea. Pochi – comunque meno del necessario – si sono accorti che il Movimento 5 stelle sul Superbonus (con solidi appoggi a destra e a sinistra) ha vinto la sua battaglia di retroguardia esattamente negli stessi giorni in cui Draghi, che da questa misura si è apertamente dissociato nella conferenza stampa di fine anno, ha rilanciato con Macron la modifica del Patto di stabilità e che questa vittoria rappresenta la prova della fondatezza della riluttanza a concedere margini di bilancio più flessibili all’Italia.
Il Superbonus è l’esempio perfetto di come principi ambientali e di sicurezza possano funzionare da salvacondotto ideologico permanente per qualunque forma di spesa pubblica, tanto più non negoziabile quanto più parassitaria. Il Superbonus dimostra inoltre la perdurante popolarità della credenza economicamente terrapiattista, in base a cui per creare buona crescita e stabile occupazione basta che il bilancio pubblico ingoi direttamente il 100% di un mercato (il 10% in più: mancia), facendo di acquirenti e fornitori di beni e servizi i propri dipendenti politici.
Nel tripudio per la vittoria, l’ex ministro Alfonso Bonafede ha reso onore all’inventore del Superbonus, Riccardo Fraccaro, che «ha completamente stravolto l’idea di economia a cui eravamo abituati».
Come si vede, siamo proprio in un’altra dimensione rispetto a quella di Draghi e Macron, che chiedono di «mantenere sotto controllo la spesa pubblica» senza «soffocare la crescita attraverso aggiustamenti di bilancio impraticabili».
Ma la dimensione italiana sembra essere quella di Bonafede e questa – cioè quella di Bonafede & C. – sarebbe anche la credibilità italiana nel negoziato delle nuove regole europee di bilancio, se e quando non ci fosse più Draghi a Palazzo Chigi.