Parliamo di musica trap, senza fare la morale e senza lanciarci in spericolati ghirigori critici. Prendiamola per quel vale: tanto. E troviamole un posto, non solo come linguaggio musicale, ma come sbocco occupazionale, prospettiva, opportunità.
Un paragone che può istradarci è con l’Nba, il campionato professionistico di basket divenuto spettacolo planetario e col sogno di milioni di giocatori in erba, dal momento che rappresenta – questo ci interessa – uno spiraglio di luce, in certi casi l’unico praticabile, per ribaltare la prospettiva esistenziale di ragazzi nati nel posto sbagliato, ma in possesso del tocco magico, quando alle prese con la palla a spicchi. Uno sport, ma soprattutto una remuneratissima professione, nella realtà. Veicolo per il successo, per ricchezze anche spropositate, o magari solo per il benessere, come buon lavoro da fare in qualche angolo del mondo, a forza di tiri a canestro. Oppure – cambiamo registro – a forza di beats che piacciono alla gente.
È uscito un piccolo saggio del sociologo Emanuele Belotti, “Birds in the trap” (Bordeaux) che analizza la scena trap italiana, la relativa nascita e sviluppo e soprattutto gli spunti di riflessione che la collocano nell’orizzonte delle opzioni disponibili per un giovane, anche nel caso provenga da zone metropolitane difficili, a base inter-etnica, magari immigrato di seconda generazione, con poche carte da giocare e un destino di subalternità.
La trap diventa allora via di riscatto e finanche di ruolo professionale, grazie al ridisegno della geografia contemporanea dell’industria musicale, nella quale la piramide s’è rovesciata, l’impatto dei social è deflagrato – ridicolizzando le vecchie campagne promozionali – e dove la base governa l’altezza e il pubblico è fatto da milioni di antenne che smistano e amplificano segnali che ricevono da mediatori di nuovo formato, o direttamente dai produttori.
Prima c’erano le case discografiche, i talent scout, gli ingaggi faraonici, le mega-produzioni, i critici, un’archeologia che con perfetto sincronismo viene raccontata da “Get Back”, il doc sulla fine dei Beatles. Ricordate? Il singolo, l’album, le star, le tournée… E il pubblico dei consumatori, che pagava. La discografia del Novecento. Poi è transitato l’uragano digitale. Tutto cambiato, da riposizionare a patto trovi ancora posto, mentre cominciava la ricostruzione e i ruoli si modificavano.
Il rap – americano, poi europeo, poi italiano – è stato il laboratorio della trasformazione, della fissione, della metamorfosi e della proliferazione: da musica subculturale a musica leggera tout court, radiofonica, ecumenica, sanremese. Poi la trap, il sottoprodotto evolutivo del rap. La trap salta i preliminari e si genera in un contesto dove i conti col passato industriale, produttivo e gerarchico, sono stati saldati e in cui le direttrici tengono conto dei fattori del presente: il consumo digitale, la dominanza dei social, la velocità del consumo, i formati agili, l’inconsistenza fisica, l’iconografia diffusa e polverizzata, la ricollocazione degli attori del marketing – etichette, management, show industry – come nuovi alleati, consumata l’espiazione dei molti peccati commessi (commerciali, finanziari e culturali).
La trap è la razza nuova della musica leggera, attraverso l’avvento dei leader del suo sottoproletariato. A una trap-star non serve istruzione né preparazione, serve timing, squadra, serve intuito, stile. Deve trovare la strada migliore per esagerare. È la rivoluzione che ha trasformato un mondo verticistico come quello discografico, in un intricato panorama orizzontale, una pianura piena di figure connesse tra loro, con ruoli che si scambiano e si sovrappongono. Scopo comune: guadagnarci, farne un lavoro, dire addio ad ansie e disoccupazione. Nasce un comparto e trionfa per quanto è in sintonia co sentimento dei suoi consumatori. Il trapper diviene personalità influente e oggetto di imitazione, acquisisce potere di condizionamento, a prescindere dal valore culturale. È produttore e prodotto.
I trapper, le loro crew, le etichette autogenerate si accordano con le majors: interdipendenza (al momento giusto) è la parola dell’ordine. «Il capitalismo delle piattaforme», scrive Belotti, segna i nuovi equilibri discografici.
Non esiste più un sopramondo e un sottomondo industriale, ma un’alleanza cruciale per la sopravvivenza e l’espansione di un mercato. Generato ora da un’iniziativa e una spinta di base, laddove non c’era molto altro da tentare. Come su un playground del ghetto, tra i canestri con le retine di ferro. A questo punto è lecito ricominciare a parlare di forme e contenuti. Ma, fatta questa premessa, il discorso ci sembra molto più trasparente di prima.