Prima di concludere questo viaggio nel bene e nel male della città voglio proporre un’altra riflessione. I centri urbani sono da qualche decennio altrettante totalità periferiche, nel senso che il centro storico, quasi sempre straordinario, è dimensionalmente come il piccolo seme di un frutto sempre più grande. Un seme, come a Roma, le cui complesse funzioni sono state, negli ultimi anni, ridotte di numero e tipi.
Come è accaduto in molte altre città, oggi il centro storico della capitale si è in gran parte trasformato in un tentacolare shopping mall a cielo aperto nel quale sono rimasti qualche museo e la città «politica», mentre la grande vitalità della cultura, del molteplice lavoro artigianale, del commercio minuto, delle attività e delle abitudini che lo alimentavano è andata perduta. Nel frattempo la periferia ha raggiunto, e non solo a Roma, livelli non più tollerabili di degrado della comunità e del tessuto edilizio in cui essa vive.
Non è facile comprendere perché quasi tutti coloro che abitano le periferie non facciano altro che accelerare il disfacimento delle proprie case con pratiche distruttive, come nel caso dello Zen di Palermo, di cui per inciso sono uno degli autori, del già citato Corviale di Roma, di Rozzol Melara a Trieste.
La manutenzione degli edifici, trascurata da anni dagli enti che dovrebbero occuparsene, è accompagnata da ogni tipo di abuso. L’architettura dei quartieri periferici, spesso di grande qualità, è per questo motivo sempre più compromessa o resa letteralmente invisibile da logge e balconi sfigurati da chiusure totali o parziali, armadi, piccole caldaie, finestre protette da inferriate diverse da appartamento ad appartamento, nuove canne fumarie, parabole satellitari, condizionatori, numerose sopraelevazioni, alcune di superfici consistenti, tende di colori differenti casa per casa.
Non è semplice individuare le ragioni di questo degrado, anche se molte letture sociologiche le assolvono, quando non le dimenticano del tutto. Forse questa volontaria denigrazione collettiva, che vede come attivi militanti molti di coloro che risiedono nelle periferie e che è a malapena compensata dall’autogratificante soggettivismo presente nei social media, deriva da un comportamento contraddittorio: se per un verso si ritiene necessario distruggere la propria casa per mettere in evidenza il suo valore economicamente modesto, oltre al fatto di averla avuta con una concessione percepita come una diminuzione sociale, per l’altro la si vuole personalizzare al massimo per affermare la propria identità.
Certo è che la base di questo «decadere» dell’abitare, la sua causa, è un disagio urbano apparentemente insanabile, una sofferenza concettuale che non deriva tanto dalla classe sociale alla quale si appartiene, dato il declino storico di questa categoria, quanto dalla difficoltà di sapere prima di tutto chi si è veramente in rapporto agli altri e se il contesto in cui si vive è in grado di consentire la realizzazione del progetto che si è scelto.
Nel mondo globale, che ha per motore il rito consumistico e il digitale, chi ne è escluso o vi è inserito in modo precario non riesce a elaborare strategie che lo ridimensionino, perché la società attuale è fatta di individui isolati. Persone la cui massa sterminata non riesce a riconoscersi e soprattutto a considerarsi come una reale alternativa alla sua stessa marginalità.
Un’altra e più complessa manifestazione del disagio urbano è la street art. Scritte, graffiti, affreschi piccoli, medi e grandi – penso a Roma e a Napoli – su facciate cieche o dotate di aperture si sovrappongono alla città in una contemporanea, babelica e infinita confusione cromatica.
Aggressiva, invadente, molteplice, la street art è un’espressione del bene perché permette a un’energia potenzialmente devastante di limitarsi a rendersi evidente e, rare volte, anche formalmente e coloristicamente valida. È insomma una ricerca spesso casuale, che prova
comunque a produrre emozione e a generare una coscienza diversa della città. Al contempo, però, insieme a una dimensione poetica che questo tipo di intervento assume attraverso i suoi migliori protagonisti, la street art ha anche un significato negativo, poiché ha sull’ambiente urbano un ruolo distruttivo, un effetto destabilizzante, precario, quasi il presagio di tempi sempre più imprevedibili, difficili e conflittuali, come se anticipasse l’apocalisse imminente della comunità urbana.
La comunicazione spontanea che la street art propone è una reazione importante a quella mediatica, ma la sua incontrollabile presenza non riesce ad andare oltre la protesta. L’accidentata decorazione di muri, infrastrutture, edifici è la metafora visiva di un prossimo e immenso rudere della precedente continuità della vita urbana. Continuità che forse è già o una maceria nascosta ai nostri occhi dalle mutevolezze tonali e timbriche impresse dappertutto come scritture drammatiche.
Un aspetto più che spiacevole della street art è il fatto che considera l’architettura, anche qualche monumento, come un mero supporto, qualcosa che non è l’esito di un linguaggio complesso, denso dei valori dell’abitare, delle memorie che esso conserva, ma un semplice materiale anonimo, un contesto solo funzionale che può essere sopraffatto dall’aggressione di segni in massima
parte sintomo di un malessere crescente. L’architettura ha sempre ospitato nelle facciate scritte – si pensi alle splendide lettere in bronzo sulla trabeazione del Pantheon – decorazioni, a volte straordinari graffiti, ma nell’ambito di un quadro compositivo unitario.
Il fatto che anche gli edifici di grande qualità siano oggi sfigurati da ogni tipo di intervento, seppure a volte corretto, perché la fioritura implacabile della street art nega il loro senso e la loro stessa presenza, è un fenomeno negativo che molti architetti non comprendono e quindi non contrastano.
da “Discorso sull’architettura. Cinque itinerari nell’arte del costruire”, di Franco Purini, Marsilio, 2022, pagine 128, euro 15