L’impossibile segretoLe regole per eleggere il Capo dello Stato e il culto idolatrico della trasparenza

I padri costituenti non potevano immaginare che i mass media avrebbero racconto in tempo reale la scelta del presidente della Repubblica. Chi corre per il Quirinale dovrebbe candidarsi o essere candidato in modo ufficiale, spiegando in Parlamento le ragioni della scelta

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Non so come andrà a finire tra qualche ora o tra qualche giorno l’elezione del Capo dello Stato e su chi finirà per ricadere la scelta dello Spirito Santo che, per previsione costituzionale, soffia sul collegio quirinalizio. 

Rimane comunque l’impressione che neppure se uniformate a quelle del conclave dei cardinali per l’elezione papale – tutti chiusi dentro e nessuno parla con l’esterno – le regole dell’elezione presidenziale potranno mai più resistere al pervertimento del mondo in tempo reale e dell’interconnessione globale, delle dirette permanenti e del pedinamento dei grandi elettori, delle indiscrezioni e dei depistaggi. 

D’altra parte, se le notizie ormai trapelano più o meno in diretta pure dalla Cappella Sistina quando c’è da scegliere un nuovo Papa, non c’è da illudersi che il segreto, che la Carta vorrebbe precedesse la fumata bianca sul nuovo Capo dello Stato, sia custodito da mille grandi elettori o da dieci capi partito, abituati a vivere in diretta Facebook e la cui esistenza e potenza politica è certificata in primo luogo dalla ubiquità mediatica.

Se le regole istituzionali per funzionare devono comunque adattarsi al modo con cui la realtà retroagisce su di esse, deformandole o conformandole ai propri paradigmi, i meccanismi di un’elezione tanto importante dovrebbero tenere conto della potenza e della pervasività di un apparato mediatico, che i costituenti non potevano neppure immaginare. Un’elezione segreta non è più compatibile né con la tecnologia, né con la cultura del sistema e della società dell’informazione. 

La segretezza delle trattative per la scelta di un Capo di Stato confligge in primo luogo con il culto idolatrico della trasparenza, la cui diffusione dimostra di per sé l’irreversibile confusione concettuale e pratica tra le categorie del politico e quelle del mediatico e suscita l’illusione che la controllabilità del potere e dei potenti sia legata alla loro perpetua esposizione pubblica, come se questa non fosse già un prodotto, un mezzo di persuasione, prima che un oggetto di conoscenza, un far vedere, prima che un vedere.

In ogni caso, se pure si volesse eroicamente resistere all’idea che la difesa della democrazia passi da uno streaming ininterrotto di chiacchiere e distintivi, rimane il fatto che per sua stessa natura la politica non ha più un dentro che non sia anche un fuori, cioè non ha più materialmente la possibilità di custodire alcunché in un segreto, che per esistere, per rilevare, per fare consenso, per stabilire chi ha vinto e chi ha perso, deve essere raccontato.

Di fronte a tutto, perché l’inconciliabilità dell’elezione presidenziale non rimanga una causa di ulteriore opacità e sospetto sui movimenti e sulle intenzioni dei politici (per definizione sordide, come vuole la vulgata) sarebbe di gran lunga preferibile che quella per il Quirinale venisse trasformata in una vera elezione, in cui ci si candida o, se si viene candidati, si accetta o non accetta la candidatura e in cui si spiegano istituzionalmente – in Parlamento, non uscendo dalle pizzerie o dalle case private – le ragioni dei sì e dei no. 

Viene comunque quasi da sorridere a immaginare questa come una riforma possibile, in un sistema istituzionale condannato da decenni alla paralisi dalla ferrea alleanza tra quelli che vogliono sfasciare tutto e quelli che non vogliono cambiare niente. 

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