Un marziano al NazarenoL’irriconoscibile Letta e il Pd a immagine e somiglianza di Bettini-Provenzano

Il segretario soffre del complesso di essere un corpo estraneo nel suo partito. Fa di tutto per farsi voler bene, anche rischiando di contraddire se stesso. Dalla politica energetica europea ridotta a un tweet alla pessima strategia su Ius soli e ddl zan, usati come totem, senza volerli davvero realizzare. Dove è finita la cultura economica e politica che aveva mostrato prima di andare alla Sorbona?

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Un giorno che sembra oggi ormai molto lontano, Nicola Zingaretti mollò tutto perché si «vergognava» di essere il segretario del suo partito. A molti sembrò un eccesso emotivo, un momento di debolezza, forse anche d’inadeguatezza al ruolo, che richiede quella che in politica è una virtù: almeno un po’ di cinismo.

Era un fatto inedito, perché non era mai accaduto che, non la linea politica, ma un sentimento molto umano, molto personale e privato, decidesse la sorte del vertice di un partito che bene o male rappresenta un italiano su cinque. Poi, dall’esilio parigino, dopo 24 ore di meditazione, quindi senza meditazione, tornò Enrico Letta, privato della campanella di Palazzo Chigi. 

Eletto al volo senza primarie, senza Congresso, senza vero dibattito su eventuali cambiamenti di linea, cioè proprio con quel metodo verticistico e politicistico che aveva segnato nei fatti – ben diversi dalle parole – la supposta prevalenza un po’ presuntuosa e un po’ pretestuosa della Seconda sulla Prima repubblica.

Ebbene oggi, a sei mesi di distanza, il paradosso è che, dopo un segretario che si vergognava del partito, abbiamo un segretario che sembra solo preoccupato, ogni giorno, che il suo partito non si vergogni di lui. Ma così diventa un complesso.

C’è quasi l’ossessione di fare prioritariamente non ciò che può garantire una buona guida alla macchina partito, ma di farsi guidare, e condizionare, dall’idea che il segretario sembra essersi fatto sulla natura profonda e a suo avviso autentica del maggior partito della sinistra italiana.

Magari non gli piace, chissà, e i modi sono sempre felpati e moderati come un tempo, ma nella sostanza questo è il Partito Democratico di Giuseppe Provenzano. Non c’è più Zingaretti, ma c’è sempre Goffredo Bettini, con le sue idee discutibili e ripetitive, ma sono le uniche che girano e non è un complimento, per un grande partito. 

Aver accoppiato Provenzano a Irene Tinagli in segreteria, sembra sempre di più (anche a Tinagli?) un’acrobazia democristiana che un segnale di apprezzamento per il pluralismo delle sensibilità. Verrà il momento della verità anche su questo. Appena Franceschini non sarà più distratto dal Quirinale, che diranno quelli del gruppone di Lorenzo Guerini, Luca Lotti e Alessandro Alfieri, che riscontri troverà l’aperta dissidenza di Andrea Marcucci, che certo non è il solo, come ora sembra, a criticare il segretario?

C’è insomma un errore di metodo (ogni segretario deve far pesare la propria personalità e caratterizzare la sua conduzione, altrimenti è un notaio), ma soprattutto – è un’opinione personale – c’è un errore di valutazione. Non è scritto da nessuna parte che il Pd del 2022 debba avere come modello i DS del bel tempo che fu. Altrimenti avrebbe ragione D’Alema sulla guarigione dopo una malattia. Avrebbero chiamato un medico da Parigi per rimettere ordine a corpo e anticorpi, restituendo l’antico vigore di un partito tutto bandiere rosse e Cgil? 

Certo non deve essere neppure una Margherita 2.0. La lunga strada che è stata fatta per realizzare l’amalgama, non deve però essere buttata via, perché anche agli occhi di un osservatore neutrale quell’amalgama era comunque prassi politica vera, forse tra le poche pratiche politiche importanti della nuova Repubblica, dopo quella tentata e non riuscita del compromesso storico degli anni 70.

Ma il Pd che il segretario sembra avere in mente, non può essere quello che a ogni bivio sceglie cose “di sinistra” in automatico, per riflesso condizionato. Cioè che gli sembrano di sinistra, come l’inopinata uscita sul voto ai sedicenni e lo ius soli del primo giorno, che solo un nemico vero di queste scelte civili avrebbe proposto in quel modo, affossandole. O quando impacchettò in un amen due presidenti di Gruppo di valore, rei di essere maschi. Per non dire del ddl Zan, mandato rassegnato al patibolo per incapacità nella manovra parlamentare. 

Per non dire della corsa affannosa a portare i cinquestelle dentro il gruppo europeo dei socialisti e democratici a Strasburgo, corsa oggi misteriosamente interrotta, ma sufficiente a creare imbarazzo, del tutto inutile comunque, e forse controproducente, per i giochi da fare attorno alla presidenza dell’Assemblea, ormai persa. Una scelta politica comunque poco lungimirante, scommettendo sul passato, il populismo, anziché sul futuro, l’europeismo.

Chi aveva apprezzato il Letta ministro trentenne, proveniente non dal bar di uno stadio ma dai circoli pensanti facenti capo nientemeno che a Beniamino Andreatta, e aveva visto in lui la mutazione evolutiva di una nuova leva post democristiana, attenta al sociale, con lo sguardo a sinistra, ma con i piedi ben piantati sulle virtù dell’economia di mercato, si chiede oggi un po’ sconcertato: «Enrico, perché fai così?», nello spirito accorato di chi lo ha sempre stimato.

La cultura economica e politica del Letta pre Sorbona (e pensavamo tutti che l’avesse trasferita pari pari agli allievi di Science Po) dove è finita, se racchiude in un tweet l’intera politica energetica del PD?

Già pretendere di fare politica energetica con il social a caratteri limitati è una cattiva idea. Ma in un colpo solo – per prendersela con l’indicazione della Commissione – parlare di nucleare e gas come farebbe un Angelo Bonelli qualsiasi – lascia interdetti. Due righe per dare dei fessi ai francesi del nucleare e ai tedeschi del gas, per di più interpretando male un messaggio UE sulla tassonomia della transizione energetica, non è cosa del Letta che conoscevamo.

Sulla politica energetica, quando girava in coppia con Bersani nel Nord produttivo per recuperare al centrosinistra la credibilità perduta per la sbornia leghista dell’epoca e la dominanza berlusconiana, diceva ben altre cose, e la presenza accanto a lui di Bersani non era la tentazione di riconquistare Liberi e Uguali, ma era una concreta, convincente prova di pragmatismo, di capacità di governo. Fu premiata, quella scelta, terminò anche così il ventennio berlusconiano.

L’impressione resta quella di un segretario che soffre del complesso di essere un corpo estraneo per il suo stesso partito, e che fa di tutto per farsi voler bene, anche rischiando di contraddire se stesso.

In questi mesi, ha azzeccato solo l’orgogliosa risposta a D’Alema sulla malattia renziana, ma – come dicevamo – la durezza della replica non è conforme ai comportamenti.

E poi c’è questo eccesso di amorosi sensi con Giuseppe Conte, quasi il sorreggersi vicendevole di due leader con problemi d’identità, con sullo sfondo il rinnovato accredito dei grillini come forza di sinistra, un endorsement tutto da dimostrare. L’errore di Zingaretti-Bettini di consegnarsi a un’alleanza che può essere un vicolo cieco, continua.

L’unico fatto che la segreteria PD può vantare, e cioè il successo nelle ultime amministrative è tutto da interpretare. Non è stato certo un successo di sinistra. I Sindaci eletti a Milano, Torino, Bologna, Napoli non sembrano della scuola Provenzano. Battere Marchetti e Raggi a Roma non è stata un’operazione di sinistra, e il (grande) successo di Calenda dovrebbe aver indicato qualcosa.

Ma soprattutto, l’esito vero, in termini di voti, dei candidati cinquestelle nei capoluoghi in cui si sono presentati (nel Nord, il livello è attorno al 2%) dovrebbe rendere più cauti nelle interpretazioni degli esiti in doppia cifra dei sondaggi.

Non c’è un piano B, in caso – sempre più probabile – di totale flop del primo gruppo parlamentare attuale alla prova di elezioni vere, ma in realtà la fragilità del piano A è tutta politica: mancanza di creatività, di disponibilità a far politica in termini larghi davvero, di capacità d’interpretare correttamente il ruolo dello spazio che forse è errato definire sbrigativamente di centro. Non è stata neppure mai valutata la conseguenza sul quadro politico di un PD troppo sbilanciato, che lascerebbe spazi potenzialmente di competenza.

Ora, c’è l’operazione Quirinale, e vengono i brividi se pensiamo che il protagonismo della sinistra è affidata a questa coppia per ora un po’ allo sbaraglio. C’è un patrimonio attivo da salvaguardare: Sergio Mattarella, Mario Draghi, ripresa economica, Pnrr, nonché un nemico – la pandemia – che non si fa commuovere e va per la sua strada.

Magari, anzi lo speriamo, andrà tutto bene.

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