C’è in alcuni giuristi la pretesa, e in alcuni magistrati la concessione, che gli avvocati in qualche modo “partecipino” alla giustizia da rendere in aula. Pretesa e concessione riposanti sull’idea, cioè, che l’avvocato contribuisca, e debba contribuire, a scrivere la giustizia di cui è destinatario il proprio assistito.
È un’idea profondamente sbagliata e dannosissima. L’avvocato deve difendere il proprio assistito perché questi è accusato, non perché è accusato malamente o infondatamente: e, in quella difesa, l’avvocato non deve in nessun modo lavorare con, ma in ogni modo contro, chi eleva l’accusa. Il magistrato, per il sol fatto di essere impancato ad accusare e giudicare, è, o almeno dovrebbe essere considerato, un avversario dell’avvocato: necessario, da rispettare, ma avversario. E che non dismette questa sua caratteristica nemmeno, e anzi tanto meno, quando dice una giustizia confacente agli interessi di chi è processato.
L’avvocato stimolato a essere “coautore” di giustizia, e a compiacersene, come purtroppo spesso accade, per quanto magari in buona fede rinnega in realtà la propria funzione, che è tutt’altra: rappresentare e difendere la controparte individuale – non il discepolo timorato, non il resipiscente incurvo, non il consegnato in postura penitenziale, insomma non la vittima in attesa di giudizio – del potere pubblico.
La sentenza “giusta” che ostentasse in calce la finzione della firma del difensore sarebbe la sentenza più detestabile, la meno affidabile, e la più contraria all’idea stessa di una decisione resa secondo diritto.
Chi poi sapesse e volesse indagare tra le motivazioni profonde di quella pretesa avvocatesca, e cioè di non esser solo voce del proprio cliente, ma della stessa giustizia di cui questi è destinatario, ne scoprirebbe il subdolo profilo sopraffattorio: quello che in realtà si carica di potere in quel ruolo incongruo e usurpato, rivolgendosi a “fare stato” sul proprio assistito. Una specie di agente di giustizia.