Difficile immaginare una figura più refrattaria agli schemi, più poliedrica e meno convenzionale di Carlo Levi. Come definirlo? Medico, scrittore, pittore, intellettuale militante (la definizione di “intellettuale” non gli andava affatto a genio)? Ma anche poeta, pescatore, amante accanito, politico disilluso eppure tenace, viaggiatore.
Era nato a Torino il 29 novembre del 1902, e per i suoi cento e venti anni – che nell’immaginario ebraico sono il massimo e più ambito traguardo cui possa ambire una vita umana, raggiunto per ora solo dal biblico Mosè – la Fondazione Circolo dei Lettori lo ricorda ma soprattutto lo riscopre con una serie di iniziative che tentano, ma forse invano, di tenere fede a una poliedricità che è la sua vera, inimitabile cifra. Si tratta, insomma, di decifrare quel che nasconde, ma anche svela, quel suo sorriso vagamente ironico eppure sempre gentile, e quello sguardo che si spinge sempre un po’ più in là perché “Tutta la vita è lontano”, come scrive in una poesia del 1935, durante il tempo del confino in Lucania.
L’unicità, e il fascino di Carlo Levi stanno già tutti lì, in quel suo rapporto di amore e dolcezza verso i luoghi dove viene esiliato dal regime fascista a seguito di una condanna per attività sovversiva e dopo due passaggi di qualche mese in carcere, l’ultimo a Regina Coeli fra il maggio e il luglio del 1935. Basti pensare a come lo patirono Cesare Pavese e Natalia Ginzburg, il confino rispettivamente in Calabria e Abruzzo: per il primo una stagione cupa da dimenticare e basta, per l’altra una sorta di spedizione forzata in una realtà parallela, un altro e primitivo pianeta disperatamente lontano anni luce.
Per Carlo Levi, invece, la Lucania diventa quasi subito qualcosa d’altro, di diverso: un oggetto di amore, il luogo di una vera – e laicissima – rivelazione: «Per me, sia che io ci vada, sia che ci ritorni con il ricordo, o che qualche immagine me la rammenti, essa mi pare, più di ogni altra, un luogo vero, uno dei luoghi più veri del mondo, tanta vi è l’evidenza delle parole, dei gesti, delle condizioni umane, la rivelatrice espressività della vita. Qui ritrovo la misura delle cose, la concretezza dei pensieri e delle immagini, e, in quella brulla prigione di pietra, il senso della sempre nascente libertà».
Qui sta parlando di Matera, ma in realtà così si esprime anche per Grassano, Aliano, i brulli calanchi: tutto quello che, insomma, viene dopo Eboli.
In altre parole, Carlo Levi riesce a fare dell’esperienza del confino, durata fra l’altro neanche un anno, il momento fondativo del proprio pensare e agire, ma soprattutto della propria inesausta curiosità del mondo. La Lucania è vera, è viva, è misura delle cose: poetiche, politiche, sociali. Scoprire la Lucania, i contadini, la durezza di quelle esistenze ma anche la loro luce, diventa per lui la chiave di lettura del presente, delle diseguaglianze e delle provvidenziali differenze. E se non fu mai (né probabilmente ci teneva a esserlo) un meridionalista in senso stretto, certo è che il pensiero di Carlo Levi sull’Italia, sul rapporto fra Nord e Sud, apre orizzonti ancora tutti da esplorare ed è lo strumento migliore per analizzare – e immaginare il nostro Paese. Più che mai in questo presente in cui la pandemia ha stravolto anche gli equilibri geografici, in fondo.
Il fatto è che pochi scrittori e intellettuali sono stati connessi al territorio come lo era lui: i luoghi, e l’umanità che li abita, sono la prima fonte di ispirazione, per lui, e anche l’oggetto primo del raccontare: non solo “Cristo si è fermato a Eboli” ma anche “Le parole sono pietre” (viaggio in Sicilia), “Tutto il miele è finito” (Sardegna), passando per lo splendido e ormai introvabile “La doppia notte dei Tigli”, diario di un’avventura in Germania nel 1959. E poi i suoi reportages da Russia, India, Cina, dalla Calabria e da tanti altri altrove. Carlo Levi è dunque uno scrittore profondamente legato alla materia dei luoghi, che ai luoghi si lega con una curiosità intelligente e un cuore pensante.
Quando dipinge o scrive la Lucania, la sua Aliano e anche Grassano (in uno splendido “Grassano come Gerusalemme”), lo fa perché c’è qualcosa di profondo e fondamentale di cui esser grato all’esperienza di quel confino e di quei luoghi: la scoperta di una verità poetica niente affatto astratta, ma profondamente umana.
Esiliato su un monte
Rituale e feroce
Guardo con occhi aperti un mondo antico
E gli usati concerti
Dentro il chiuso orizzonte senza voce
L’indifferente intrico
Dell’estraneo destino
Sperai provvidenziale, come un ponte
Fra il passato e il futuro
Libero e nostro: amico era il confino…
Questa sua straordinaria capacità di affrontare e conciliarsi con la complessità del reale – tale per cui un’esperienza straniante come quella del confino diventerà il cuore stesso del suo pensiero e della sua militanza politica e intellettuale, la tessitura di un legame profondo che durerà per tutta la sua vita – sono lo specchio della strabiliante poliedricità di Carlo Levi. Sin dagli inizi.
Nasce infatti a Torino in una famiglia della borghesia ebraica colta – soprattutto per parte della madre, Annetta Treves, sorella di Claudio Treves, giornalista e politico antifascista – frequenta il liceo Alfieri ma già a quindici anni, maurato, si iscrive a Medicina. Diventa brillantemente medico ma non eserciterà mai – se non in Lucania, anche se gli era proibito, e saltuariamente su commissione, soprattutto della sua compagna di vita Linuccia Saba (figlia di Umberto), che lo interpella per le questioni di salute del marito Nello. Decenni di un poliamore ante litteram non senza burrasche…
Ben presto si scopre pittore, ma non soltanto.
Fondamentale è in quegli anni per lui la conoscenza e l’amicizia di Piero Gobetti. La sua rivoluzione liberale sarà in fondo il filo conduttore di tutta l’attività politica e civile di Carlo Levi che anche da senatore della sinistra sarà sempre un indipendente di nome e soprattutto di fatto, piuttosto allergico tanto ai dogmatismi del partito comunista quanto ai bizantismi del sistema Italia, quello che ha nell’immediato dopoguerra impedito un vero ricambio della classe dirigente e favorito invece una letale continuità con il regime fascista. Tutto questo Carlo Levi lo colse molto bene, più con disillusione che con rabbia, come racconta nel suo romanzo romano, “L’Orologio”.
Dopo Torino arrivano presto anche altri luoghi per lui: Parigi, città rifugio e città d’ispirazione, Firenze dove rimase nascosto nel tempo dell’occupazione tedesca e della caccia all’ebreo e dove, su pressante invito di Anna Maria Ichino, che lo teneva nascosto, scrisse il “Cristo si è fermato a Eboli”. E Alassio, dove c’è la casa di famiglia che d’estate si riempie di bambini e adulti e dove Carlo Levi è preda di una ispirazione pittorica a fasi alterne: capita che dipinga due quadri al giorno ma anche che preferisca andare a pescare i delfini in mare dall’alba a notte fonda. E poi la Lucania, patria di adozione dove tornerà tante volte dopo la guerra, per nostalgia e per costruire un nuovo Sud: fu anche il suo ultimo viaggio, poco prima di morire, il 4 gennaio del 1975.
Altri luoghi e tanti legami: amicizie che durano una vita intera, come quella con Renato Guttuso. E amori tutti molto poco convenzionali: da Paola Levi sposata Olivetti, che andrà a trovarlo al confino, alla misteriosa Vitia Gourevitch, una ballerina affascinante e dalla vita travagliata, a Linuccia Saba che gli fu amante, amica, segretaria, confidente, un po’ madre e anche un po’ figlia.
Una vita, insomma, meravigliosamente fuori da ogni schema senza però mai una nota di astio, di rivendicazione di alcunché. Carlo Levi era così per natura non per militanza: originale, libero, eclettico, straordinariamente appassionato alla vita.