Indice di disagioLa rabbia dei Comuni esclusi dal Pnrr racconta il terribile ritardo italiano nelle politiche urbane

Sui 2.418 progetti presentati per il piano, ne sono risultati ammissibili 2.325. Chi è rimasto fuori si è lamentato (e una soluzione è arrivata), ma intanto si è sollevato il problema della rigenerazione delle città, su cui il Paese non ha mai investito e che oggi presenta lacune enormi

di Sven Mieke, da Unsplash

La storia delle nostre città è fatta di demolizioni, adeguamenti, rifunzionalizzazioni o abbandoni di elementi urbani o dotazioni territoriali, di processi di sostituzione del tessuto sociale ed economico.

Il tema attuale della rigenerazione urbana, intesa come nuovo paradigma per rendere le nostre città e i nostri territori più funzionali rispetto ai bisogni contemporanei attraverso il recupero, il riuso e la trasformazione di edifici e aree dismesse e sottoutilizzate, è un concetto complesso in cui la dimensione fisica dei processi è sempre strettamente correlata con le dinamiche di natura sociale ed economica. Questo approccio multidisciplinare, che ha finalità indubbiamente virtuose, presenta però anche dei limiti se non associato a una strategia di pianificazione e di policy adeguate, come la vicenda dei fondi destinati alla rigenerazione urbana della Missione 5 del PNRR dovrebbe insegnare.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha stanziato, nell’investimento 2.1 della Missione 5 “Coesione e inclusione”, Componente 2 “Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore”, l’importo di 3,4 miliardi di euro per i progetti di rigenerazione urbana volti «alla riduzione di fenomeni di marginalizzazione e degrado sociale, nonché al miglioramento della qualità del decoro urbano e del tessuto sociale ed ambientale».

Una definizione molto ampia di rigenerazione che colloca però questa iniziativa nel solco degli interventi che hanno obiettivi principalmente di natura sociale, visto anche che l’investimento è incardinato nella Missione 5. L’importanza del tema è resa evidente dal numero dei progetti presentati: 2.418. Un segnale indubbiamente forte circa la necessità, per Comuni di tutte le dimensioni, di poter disporre di risorse per ripensare, rinnovare o recuperare parti più o meno estese del proprio territorio. Vediamo maggiormente nel dettaglio i numeri: i progetti ammissibili sono risultati 2.325, di cui 1.784 ammessi e finanziati (76% degli ammissibili) distribuiti per 483 enti locali beneficiari, per un importo complessivo di 3,4 miliardi di euro.

Il 30 dicembre scorso, a seguito della pubblicazione del decreto interministeriale Interno-MIMS-MEF con cui sono stati individuati i Comuni beneficiari del contributo, molti dei sindaci, soprattutto del Nord, i cui progetti presentati sono rimasti esclusi non perché di qualità insufficiente quanto perché i rispettivi Comuni avevano un indice di vulnerabilità sociale più basso, sono entrati in stato di agitazione.

L’indice di vulnerabilità sociale e materiale (IVSM) è un indicatore composito elaborato dall’Istat attraverso la sintesi di sette indicatori, che tengono conto di analfabetismo, potenziale disagio assistenziale, situazione di sovraffollamento abitativo, disoccupazione e scolarizzazione giovanile, numero di famiglie prive di un’entrata generata da un’occupazione.

I criteri di selezione del bando, in coerenza con il piano su cui il governo italiano ha ricevuto l’approvazione dal Consiglio Europeo, prevedevano la priorità per quei Comuni con un indice più elevato, cioè per chi ha un disagio maggiore. E proprio questo criterio è quello che oggi viene contestato per chiedere una più equa distribuzione delle risorse del PNRR sull’intero territorio nazionale.

Il tema però, se affrontato in questi termini, risulta malposto e fuorviante e ricorda il famoso detto “quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito” in quanto il problema non è l’utilizzo dell’indice di vulnerabilità come indicatore di risorse il cui obiettivo è quello di ridurre le fragilità sociali, il tema è che in Italia le politiche urbane, dal Dopoguerra a oggi, sono inesistenti: siamo uno dei pochi paesi dell’Unione Europea a non avere né un ministero dedicato alle città né un’Agenda Urbana nazionale e a non riuscire a riformare una legge urbanistica che risale al 1942. Qualcuno davvero pensava che bastasse qualche miliardo (nel PNRR le risorse complessive per la rigenerazione urbana non arrivano a dieci miliardi complessivi) per colmare un vuoto di politiche urbane di decenni?

Se interventi di contrasto alla marginalizzazione e di aumento dell’inclusione sociale non possono che essere strettamente connesse ad indicatori che consentano di assegnare le risorse là dove le situazioni sono maggiormente critiche e compromesse (e sappiamo che purtroppo queste hanno una concentrazione maggiore nel sud del Paese), il tema della rigenerazione urbana – in relazione ad esempio alla necessità di rendere le nostre città più sostenibili, più verdi e più efficienti dal punto di vista energetico – non ha una correlazione così stretta con indicatori legati al disagio. Ma sono (anche) questi gli interventi e gli investimenti di cui le nostre città e i nostri territori, che arrivano da decenni di bilanci in sofferenza e di investimenti a singhiozzo, hanno bisogno.

Se in questa occasione si sono trovate le risorse per far rientrare la protesta dei sindaci esclusi, grazie allo stanziamento statale aggiuntivo di 900 milioni di euro extra-PNRR, per il futuro delle nostre città servono politiche, strumenti e investimenti mirati con una visione nazionale più forte.

La pandemia ci ha messo davanti a molti ritardi e inadeguatezze, anche nelle nostre città ma, ritornando al celebre detto, non ci si può fermare a guardare il dito, serve piuttosto puntare la luna. Servono piani e programmi strutturati che, con una regia nazionale in grado di coniugare esigenze sociali, ambientali, energetiche e di mobilità, mettano nelle condizioni i Comuni di rendere più efficienti e sostenibili i propri territori.

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