Ex malo bonumL’ultimo libro di Daria Bignardi è un breviario di bellezza

“Libri che mi hanno rovinato la vita e altri amori malinconici” (Einaudi) è un memoir intimo e sincero che attraversa il mare ineludibile della sofferenza. È una mappa del dolore, che però ha sempre valore formativo: è un percorso che porta alle diverse soluzioni per liberarsene

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Tra le autrici italiane contemporanee Daria Bignardi si segnala da tempo nel bello scrivere, regalandoci periodicamente libri dilettevoli per lingua e stile. Ma soprattutto apprezzabili per contenuto: le sue sono opere che salvano la vita, cambiandola in bene. E tale, a dispetto del titolo, è anche il suo ultimo lavoro, dall’8 febbraio nelle librerie: “Libri che mi hanno rovinato la vita e altri amori malinconici” (Torino, Einaudi 2022).

A 22 anni dallo scritto d’esordio “Non vi lascerò orfani”, Daria Bignardi solleva nuovamente il velo sulla sua vita e si mette a nudo in un memoir intimo e sincero, che si struttura in 12 capitoli. Uno per ogni mese dell’anno. Il tratto autobiografico, mai assente nella precedente produzione d’esclusivo genere romanzesco, emerge preponderante in questa somma o breviario di bellezza.

Bellezza cui si perviene attraversando il mare ineludibile della sofferenza. E lo si capisce subito dalle parole di Virginia Woolf poste in esergo: «Se non vivessimo alla ventura, prendendo il toro per le corna e tremando sui precipizi, non saremmo mai depressi, senza dubbio; ma già saremmo appassiti, vecchi, rassegnati al destino».

“Libri che mi hanno rovinato la vita e altri amori malinconici” è un dolente viaggio nella memoria e della memoria, che non teme di evocare e rivivere i fantasmi del passato con tutto il loro armamentario di angoscia, ossessività, ansia, malinconia. È una mappa del dolore, spirituale innanzitutto e perciò più lancinante, quella che la giornalista d’origine ferrarese – e la stessa città natia riaffiora nei ricordi di bambina quale «posto nebbioso e umido» da cui fuggire – traccia con precisione.

Dolore che, onnipresente nel corpus bignardiano e nuovamente declinato in tutte le sue sfumature, è però combinato, come già nell’ultimo romanzo “Oggi faccio azzurro” (Mondadori 2020), a soluzioni liberatorie da esso. Non in senso soppressivo dello stesso, il che sarebbe impossibile. Ma prendendone consapevolezza, facendoci i conti, depauperandolo della propria negatività, traendo dal suo inverarsi nella quotidianità validi insegnamenti.

Una riproposizione, insomma, del proverbiale ex malo bonum (dal male il bene, ndr), ovviamente privo di qualsivoglia riferimento a una grazia soprannaturale salvifica, come nell’originale testo di Agostino (De grat. Chr. I, 19, 20).

Ma anche nel riconoscimento e nella valorizzazione della sua dimensione formativa il dolore resta quel che è: un male, anzi il male. In “Libri che mi hanno rovinato la vita e altri amori malinconici” affiora una mistica laica della sofferenza, che nulla ha a che vedere con quella cristiana di esaltazione della stessa nel raggiungimento dell’unione con Dio.

Nessun elogio, dunque, del “nudo patire”, di quelli che animano gli scritti visionari cattolici di una Maria Maddalena de’ Pazzi o di una Veronica Giuliani e che trovano una plastica espressione in modelli più devozionali come quello di Rita da Cascia, la Santa degli impossibili. Appellativo, questo, che ha fra l’altro ispirato, sette anni fa, il titolo del quinto romanzo di Daria Bignardi (Mondadori 2015).

La mistica laica della sofferenza non è né celebrazione né giustificazione della stessa. Meno che mai poi conduce ad apatia o rassegnazione, da altri spesso dipinte come virtù. Ma è contezza sapienziale, che si traduce in un’interiorizzazione e narrazione «della tristezza e della disperazione per ciò che sono, senza pomparle come razzi lanciati nello spazio destinati a esplodere».

In un riconoscimento delle forme attuali, in cui la sofferenza si concreta di volta in volta, sempre attuato con ironia e leggerezza. Sofferenza che, ultimamente, è presente all’autrice nelle sembianze della malinconia «compagna dell’ansia», fonte ispiratrice del più celebre tra i suoi romanzi: “Storia della mia ansia” (Mondadori 2018).

Ed è in un quesito e seguente tentativo di risposta che si compendia la profonda lezione dell’ultimo libro di Bignardi: «Non è possibile guardare la malinconia da fuori, riconoscerla, farci i conti, così come ho imparato a fare con l’ansia? Forse anche la malinconia, come l’ansia, può avere un lato buono, portare a qualcosa di utile, di umano, se non si fugge ma si impara a osservarla, addomesticarla, a non prenderla sul serio» (p. 82). Consapevoli che «non si può guarire dalla malinconia: la si può solo riconoscere» (p. 105).

Viatico in questo non facile cammino sono i libri. Soprattutto quelli che, facendoci conoscere l’irresistibile attrazione dell’abisso, ci hanno al contempo rovinato e salvato la vita. «Credo – così nel capitolo d’Aprile – che per fare questo cammino io debba proprio passare dalle opere che mi hanno esaltata. E distinguerle da quelle che invece sanno parlare della tristezza e della disperazione per ciò che sono […]. Cattedrale di Raymond Carver è questo: un’opera che sa raccontare tristezza, emarginazione, solitudine e disperazione senza crogiolarcisi. Ecco perché Carver rimane. Minimalismo batte massimalismo. Per parlare della tristezza bisogna togliere, spegnere, non aggiungere. Il dolore è già abbastanza ridondante e incandescente di suo» (pp. 82-83).

Anche se in questo pellegrinaggio della memoria – e Daria Bignardi lo specifica bene – attraverso quei libri, che ci hanno malamente plasmato, ma anche contribuito col tempo al nostro riscatto. Libri di rovina e salvezza.

Per l’autrice essi sono principalmente tre: “La foresta della notte” di Djuna Barnes, “Il demone meschino” di Fëdor Sologub (e a segnarla maggiormente è proprio il romanzo del simbolista russo, elemento chiave del suo “Un karma pesante” [2010]) e “Così parlò Zarathustra” di Friedrich Nietzsche.

«I miei tre maledetti», come lei stessa li chiama, che l’hanno educata a un distorto credo doloroso dell’esistenza e del mondo. Perché, «c’è anche un modo asciutto per raccontare il dolore, e non è stato quello di Nietzsche, Barnes e Sologub, i miei tre maledetti». Ma da questa distorsione è anche impercettibilmente germinata la salvezza: una salvezza fatta di aperture alla vita e all’amore nell’ironico riconoscimento della nativa fralezza umana.

Ed ecco perché l’odiosamata triade di libri ritorna anche a chiusura di quest’opera, quando la scrittrice immagina di dare per il 14 febbraio, giorno della sua nascita, «una festa in costume per il mio compleanno e i compleanni di Friedrich Nietzsche, Gabriele Münter, Fëdor Sologub, Chris McCandless e Lou Salomé. Inviterò anche Djuna Barnes, Grazia Cherchi, Franco Fortini, Carmelo Bene, Albert Camus e Carlos Drummond de Andrade. Virginia Woolf – che quando era di buon umore era l’ospite più effervescente e simpatica che si potesse immaginare – sarà l’anima della festa, e brinderemo a questo libretto appena uscito. Balleremo Charleston di Enoch Light come in Midnight in Paris, flirteremo, rideremo e berremo champagne. Farò la pace con Fëdor, Djuna e Friedrich, a patto che ballino con me, e sarà bellissimo» (p. 148).

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