Dunque Luigi Di Maio, che abbiamo ribattezzato qui come il cardinal Mazzarino perché agogna la riconquista del M5s con le armi della furbizia politica, è da due giorni lapidato sui social da account soprattutto finti – molti sono in America! Lo ha appurato un esperto, Pietro Raffa, che ha scoperto che l’hashtag diventato di tendenza #DimaioOut (lo avevamo già segnalato ieri) è frutto di una precisa strategia social ripescata per l’occasione dagli uomini di Giuseppe Conte, Rocco Casalino in testa.
Ha spiegato l’analista a Repubblica: «Può esserci una forma organizzativa del consenso online nei partiti in cui account reali di militanti si coordinano per spingere un determinato argomento, o per attaccare gli avversari. Oppure ci sono società di servizi generalmente estere che vendono profili e attività di questi ultimi, l’intelligenza artificiale che li muove si è fatta molto raffinata e per un occhio non esperto possono benissimo sembrare reali».
Nulla di particolarmente nuovo, all’epoca degli strali contro il “partito di Bibbiano” era melma scagliata dallo stesso Di Maio contro il Pd, d’altronde il M5s è nato e cresciuto pascendosi anche di questa roba. Ma come Robespierre, finito lui stesso alla ghigliottina dopo aver mozzato le teste di migliaia di persone, oggi il ministro rischia di essere vittima della intrinseca violenza di stampo grillino.
Difficile, ed anche stucchevole, provare a fare la conta tra contiani e dimaiani tanto è argilloso il terreno su cui si muovono i sonnambuli del grillismo che fu: oggi chi sta con Conte era con Di Maio e viceversa. Si aspetta un cenno di Roberto Fico, il super partes per definizione.
Ma intanto questa violenta campagna di delegittimazione di Di Maio, cioè il ministro degli Esteri e figura chiave del governo, è balzata subito agli occhi del mondo politico che in vario modo ha solidarizzato con lui, e non certo per una questione di bon ton ma perché tutti hanno capito che dietro il bombing contro il capo della Farnesina si nasconde il primo attacco dell’avvocato del populismo contro Mario Draghi.
Il big match tra Giuseppi e Giggino, che rischia di essere massacrante come la finale australiana tra Nadal e Medvedev ma con meno talento, non va visto insomma solo come lo scontro frontale per la guida del M5s, ma anche come la prima rivalsa dell’ex premier contro l’attuale premier, ovviamente per una questione tutta politica.
Chi, e non senza ragione, ha letto dietro la stramba condotta di Conte nella vicenda quirinalizia della settimana scorsa una tattica tesa a far saltare il quadro politico, oggi ha validi motivi per intepretare l’attacco al ministro degli Esteri come l’avvisaglia di un attacco al governo per far precipitare il Paese verso le urne. O, come minimo, per far capire al presidente del Consiglio e anche a Sergio Mattarella che la strada di Mario Draghi sarà tutt’altro che pianeggiante.
Mettere nel mirino il ministro degli Esteri trattandolo come un personaggio spregevole non può non avere un effetto istituzionale, soprattutto se – come qualcuno prevede – si intende portare la pugna fino alla richiesta di espulsione dell’antagonista di Conte, il quale, ormai screditato agli occhi dei più (vedremo sino a quando Enrico Letta gli sosterrà la fronte), ha assolutamente bisogno di una rilegittimazione nel Movimento: e per questo obiettivo non c’è nulla di meglio che imbracciare le armi contro un nemico interno nel nome di non si sa bene quale ortodossia.
Il problema è che “Mazzarino” è ovviamente pronto a fare la sua battaglia anche mettendo sul tavolo il delicato ruolo che riveste nel governo: in altre parole, facendo capire che una fragorosa e cruenta caduta del Di Maio dirigente del Movimento non potrebbe non intaccare la figura del Di Maio ministro. Un problema serio. Ma egli non reagirà con le stesse armi di Casalino. Da buon cardinale seicentesco, userà armi tutte politiche e diplomatiche finché l’avvocato dovrà ritirarsi in buon ordine. O rassegnarsi a perdere la guerra.