L’Europa è come una bicicletta: se non avanza, si ferma e cade. È stato così fin da quando l’Europa ha cominciato a integrarsi nella Comunità del carbone e dell’acciaio, poi con l’Euratom, cioè le risorse chiave del Dopoguerra.
Con il passare degli anni e dei decenni, nella seconda metà del ‘900 i Paesi europei hanno condiviso sempre più i loro interessi, si sono resi conto che l’unione – poi Unione – era addirittura necessaria per risolvere i problemi dell’Europa.
Negli anni ‘90 la bicicletta europea ha accelerato, si è concessa un paio di pedalate più robuste e vigorose. Ma è stato più per necessità che per una mera ambizione. «La nascita dell’Euro arriva in una fase di crisi, o comunque di difficoltà per molti Paesi», spiega a Linkiesta Mauro Battocchi, oggi ambasciatore in Cile.
Da giovane diplomatico, in quegli anni di fine secolo che avrebbero portato all’Euro, Battocchi aveva seguito da vicino i lavori comunitari che hanno portato all’adozione della moneta unica. E ha raccontato quei giorni nel libro “La partita dell’Euro”, un saggio che non ha la pretesa di essere un manuale di storia o una cronaca degli eventi, ma vuole offrire il punto di vista – privilegiato, in un certo senso – di chi ha partecipato in prima persona agli eventi, a vent’anni dall’entrata in vigore della moneta unica in Europa.
Nel suo racconto, Battocchi ricostruisce i “dietro le quinte” di una delle campagne diplomatiche più complesse che l’Italia abbia condotto negli ultimi decenni: il negoziato che tra il 1996 e il 1998 ha portato Roma nel nucleo dei fondatori della moneta unica.
È allora che ha maturato la consapevolezza di un’Unione europea in movimento continuo, come una bicicletta che non può smettere di andare avanti se non vuole cadere. «L’Unione europea – dice Battocchi – è un processo di integrazione unico a livello internazionale, in nessuna altra parte del mondo si vedono Paesi sovrani che decidono in maniera autonoma e volontaria di rinunciare a una parte della loro sovranità. E a volte c’è bisogno delle crisi per fare le pedalate più importanti: in quel periodo la recente unificazione della Germania, e la condizione dell’Italia post-1992, forse convinse tutti a fare questo sforzo».
L’Italia di quel periodo attraversava una crisi devastante. Lo scenario politico era quello del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica e la situazione finanziaria era segnata da un debito pubblico profondissimo.
«Il rischio di rimanere tagliati fuori dall’Unione che si andava costruendo intorno alla nuova moneta fu percepito collettivamente come una minaccia esistenziale e il Paese seppe reagire mobilitando tutte le risorse per continuare a condividere il proprio destino con il resto del continente», spiega Battocchi.
L’Italia aveva contribuito direttamente a quell’accelerazione degli anni ‘90, iniziata con il Trattato di Maastricht. Ma rischiava di rimanere fuori dai nuovi processi di integrazione europea, o comunque di rimanere indietro a causa dei suoi problemi interni. Non poteva permetterselo: tutta la storia del Paese come di Repubblica democratica e come economia avanzata è legata in qualche modo all’Europa.
«Nel 1996 avevamo un deficit del 7,3% – dice Battocchi – e arrivare al 3% richiesto da Maastricht era uno sforzo finanziario talmente grande da far tremare i polsi. Però ci furono ottime intuizioni della nostra classe dirigente, che vedeva nell’Unione europea la nostra stella polare. Così si attivarono una serie di comportamenti virtuosi, dal Parlamento che approvò una manovra da 64mila miliardi, fino a tutti gli apparati dello Stato che si attivarono per far riconoscere quello sforzo a livello diplomatico».
Il rapporto con la Germania, già all’epoca riferimento centrale dell’Europa, non era privo di frizioni. Al netto di dichiarazioni pubbliche, alla stampa, di grande complicità, tra Roma e Berlino non c’era il clima dei giorni più sereni.
I due Paesi si scontravano, ad esempio, sulla riforma del Consiglio di sicurezza dell’Onu: la Germania cercava in quegli anni di entrarvi con un seggio permanente insieme alle grandi potenze; l’Italia non era affatto d’accordo e avrebbe accettato una riforma solo se questa avesse permesso di democratizzare e rendere più rappresentativo il Consiglio.
In più, in quei giorni la Germania si scopriva nervosamente come un gigante dai piedi d’argilla, scrive Battocchi ricordando che il costo esorbitante della riunificazione con l’ex Ddr: la disoccupazione tedesca era arrivata al 10,2% e dilatava i trasferimenti del welfare e faceva sballare le previsioni.
Allora tanto in Italia quanto in Germania fu determinante il lavoro delle grandi figure politiche dell’epoca. È uno degli insegnamenti contenuti in “La partita dell’Euro”: «La storia è fatta di tante condizioni che coesistono, in tanti casi nel bene e nel male i leader fanno la differenza. Dovremmo domandarci cosa ne sarebbe stato dell’Euro senza Helmut Kohl, dal momento che larga parte dell’establishment tedesco era contraria: Kohl impegnò tutto il suo capitale politico in quella partita, perché credeva fermamente nell’unione monetaria», dice Battocchi.
Nell’ultimo capitolo del libro, l’autore fa un salto fino ai giorni nostri, guardando la crisi dovuta alla pandemia e la risposta dell’Unione europea. «Ognuno è libero di farsi l’idea che vuole di questo percorso europeo, ma dobbiamo chiederci cosa avrebbe potuto fare l’Italia di fronte a questa crisi, e il crollo del Pil dovuto al Covid-19, se fosse stata slegata dalla sicurezza economica europea».