Si dice che ogni vero scrittore scriva sempre lo stesso libro: che non si può sfuggire ai propri fantasmi e che, anzi, i fantasmi vadano invocati con ostinazione e tutta l’impudenza nel momento stesso in cui si scrive.
Quattro anni fa, Nadia Terranova si era congedata dalle ombre che insistono nella sua scrittura con “Addio Fantasmi” (Einaudi), lasciando che la protagonista, Ida, facesse ritorno nella città natale, Messina, e si liberasse finalmente dal suo passato. Nel secondo romanzo di Terranova, la libertà era un obolo da rendere alla propria casa d’infanzia, solo dopo aver risolto l’ossessione di una perdita e giusto prima di rimettersi in viaggio con, in testa, una nuova idea di possibilità.
Ma i fantasmi non si eclissano mai del tutto, quanto i veri scrittori scrivono sempre lo stesso libro, e dunque eccoci di nuovo lì: fra i due mari. La mitica geografia a cui Terranova, nata anche lei a Messina, torna a rivolgersi con “Trema la notte” (Einaudi). Quel punto fra le due sponde dove, di sera: «il sole si è sdoppiato, di là è sceso sui profili dell’Aspromonte mentre di qua i suoi raggi più violenti hanno colpito la maestà dell’Etna, placandosi soltanto oltre Capo Peloro, oltre la svolta di Mortelle, a poco a poco che il Tirreno si allunga verso il castello di Milazzo, in faccia alle isole Eolie, dove quel sole è sceso dentro un mare che si apre al Mediterraneo e non è già più Stretto».
Stavolta, tuttavia, agli stessi luoghi non corrisponde il solito tempo. Il passato con cui confrontarsi, quell’eredità faticosa che nel primo romanzo di Terranova, “Gli anni al contrario” (Einaudi), veniva lasciata da Aura e suo marito alla piccola Mara, non è un passato prossimo: ma anteriore. Siamo nel 1908 e alla vigilia del 28 dicembre, il giorno in cui le onde del terremoto si propagano dall’epicentro verso lo Stretto e investono sorde e incontenibili qualsiasi cosa, le città, soprattutto il destino dei due protagonisti.
Nicola ha undici anni e passa ogni notte in cantina legato, per le follie di una madre superstiziosa, a un catafalco. Dall’altra parte del mare, c’è Barbara, una ventenne in fuga dal padre e da un futuro marito di cui non è innamorata. Due i personaggi, un bambino e una ragazza. Due le città, Messina e Reggio Calabria. Due le voci narranti, una in prima persona, quella di Barbara, e l’altra in terza. Due i mondi possibili, su cui ognuno è costretto a tirare giù una linea: c’è il prima e il dopo. Ciò che è stato e quello che, dal momento in cui la terra trema, sarà. Oppure, potrebbe essere: perché lo spazio in cui avviene la storia è al centro fra due mari, su un piano plastico, e al centro fra due istanze interiori, su uno figurato.
Terranova si sofferma su quest’attimo, il dopo: il momento in cui lo slittamento del caso è già avvenuto, la vita per come l’abbiamo conosciuta non esiste più, e si dischiude un vuoto, un bianco, ma anche il presupposto di un’eventualità. È dentro quest’incrinatura che l’autrice conduce i suoi lettori, in un impianto ricco di misura e di tenuta dove a farci da bussola sono i tarocchi. Dopo il prologo, la prima carta dei tarocchi è quella dell’Appeso, un uomo rovesciato con la testa in basso che evoca l’idea della gravitazione e del conflitto che questa può infliggere all’uomo: «C’è qualcosa di più forte del dolore», scrive l’autrice, «ed è l’abitudine».
Il dolore, nello spazio fra i due mari e in questo tempo passato, soprattutto per le donne, è una «diluzione quotidiana, invisibile e anestetica». Premessa che, da privata considerazione della protagonista, si rende presto immagine di violenza. Per rendere la coercizione, e le conseguenze che la violenza della società, la famiglia, della natura, delle credenze o degli eventi, provoca nei protagonisti, a dimostrazione di quanto ogni storia in letteratura invochi una specifica lingua: il fraseggio si apre e diventa musicale. La frammentarietà, la paratassi o gli anacoluti di certe voci contemporanee sono distanti quanto una riva dall’altra fra i due mari.
Siamo in un’epoca in cui alle donne non è concesso di scegliere l’oggetto del proprio amore, di andarsene sole per strada senza l’incubo di un pericolo, di studiare, decidere, o di sbagliare: la lingua non può essere il sussulto sincopato della nevrosi, e dunque si stira in un respiro che fa il verso ai classici, e aprendosi diluisce il dolore e lo rende quasi sopportabile.
Come accade nelle tragedie greche, arrivati alla scena madre dello stupro, Terranova filtra la violenza attraverso gli occhi di un messaggero, il bambino. È lui il testimone esterrefatto: «Lotta, scontro, combattimento sono termini che prevedono un affrontarsi tra pari, eppure non ci fu parità in quel che accadde». Infinite sono le frasi che si declinano a partire dalla parola “terremoto”, sembra voler suggerire l’autrice. Eppure poi, nel vuoto che si dischiude, a configurarsi potrebbe essere anche il preambolo di un cambiamento. E proprio laggiù, in questa nuova vita, i due protagonisti si ritroveranno uniti per sempre.