«Non ci meritiamo tutta questa bellezza», dice Gianni, interpretato da Mario Russo, poco prima di venire ammazzato. Lui e Rosa, l’esordiente Lina Siciliano, sono in cima a un versante da cui si vede un promontorio calabrese stendersi sotto di loro in una disperata e desolata immobilità.
È il luogo scelto da Francesco Costabile per ambientare “Una femmina”, film presentato nella sezione Panorama del festival di Berlino: un paesino circondato dalle montagne in cui le logiche di potere dei clan ’ndranghetisti tengono in ostaggio la vita e le sorti di intere famiglie. Una croce ereditaria dalla quale è impossibile fuggire.
In “Corpo Celeste” (2011), una delle opere meno conosciute di Alice Rohrwacher, la Calabria faceva da sfondo alla ricerca spirituale di una ragazzina di 13 anni, che viene ostacolata, intralciata dal degrado e dalla corruzione che la circonda – una sorta di riproposizione evangelica in cui il miscredentismo dei Giudei si oppone alla fede illuminata di Gesù. Anche in “Una femmina”, la terra è maledetta ed entrambi i film, forse, tentano di raccontare ciò che è vietato, cioè la presa della ’ndrangheta sul territorio calabrese.
È quindi un gesto coraggioso quello di Costabile, che si ispira liberamente al romanzo “Fimmine ribelli. Come le donne salveranno il paese dalla ’ndrangheta” dello scrittore e giornalista Lirio Abbate, edito da Rizzoli nel 2013.
Rosa perde la madre quando è ancora una bambina, uccisa dallo zio e dalla nonna per avere tentato di ribellarsi e scappare. L’omicidio si consuma nelle prime sequenze della narrazione, alterate, sfocate dalla resa dei ricordi di Rosa, che non riconosce, non realizza subito ciò che vede. Un rimosso che riemergerà quando diventa adolescente, in un mondo già infestato di presagi di violenza.
La ‘ndrangheta appare non solo come una continua e impietosa regolazione di conti e traffici illeciti, ma come un microcosmo chiuso a chiave dove l’identità di chiunque ne faccia parte viene, per forza di cose, deviata: la famiglia di Rosa accetta l’omicidio e la morte, anche quando avviene per loro stessa mano, come inevitabile conseguenza di chi si sottrae alle regole; il cugino di Rosa, Natale, interpretato da Luca Massaro, è votato quasi geneticamente allo stupro e alla brutalità a causa delle atmosfere che respira, che sono anche le uniche che conosce. E la stessa Rosa, per vendicare l’uccisione della madre, si affida al solo metodo che le sia stato insegnato: la sopraffazione.
L’isolamento del luogo riflette dunque e soprattutto una dimensione mentale, un abito psichico: non produce altro che se stesso, è tappato, non ha vie di uscita. È un ordine primitivo e animale quello che affrontano i personaggi ed è anche, paradossalmente, l’unico possibile.
Tuttavia, il film si intitola “Una femmina” e la scelta non è casuale. Una femmina, una donna, una storia come tante, sembra voler dire. E infatti, il senso di soffocamento che si avverte per tutta la durata del film, che il paesaggio esaspera e che le inquadrature continue sul volto di Rosa sottolineano, è lo stesso che sperimenta qualsiasi donna all’interno di un contesto di abusi, o in una condizione di lesione della sua libertà.
Forse dietro la ‘ndrangheta di Costabile si nasconde anche l’espediente narrativo perfetto per raccontare il silenzio, l’umiliazione e la lotta di migliaia di donne prigioniere di volta in volta di organizzazioni criminali, delle famiglie, della provincia: realtà sociali più o meno estese dove subentra una gerarchia di rapporti che non si può scegliere perché capita in sorte, è imposta dall’ordine naturale delle cose e dalle coincidenze più o meno fortunate della vita.
E per una donna, per “una femmina” troppo spesso questo destino apparentemente imparziale non produce altro che implicite condanne.