L’aborto è un diritto ostacolato. Sono sempre di più gli Stati che restringono (o negano) la possibilità di scegliere l’interruzione volontaria di gravidanza.
L’Oklahoma nell’aprile 2022 lo ha vietato – anche nei casi di incesto e stupro – a meno che non ci sia il pericolo di compromettere la vita della donna. Si rischiano fino a 10 anni di carcere e 100mila dollari di multa. La Florida pochi giorni fa ha vietato l’interruzione di gravidanza dopo le 15 settimane anche in caso di stupro, incesto o traffico di esseri umani; questa legge modifica la precedente, che permetteva di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza (ivg) fino alla ventiquattresima settimana. In Polonia, dove è vietato abortire anche in caso di malformazione del feto, la scorsa settimana si è aperto il primo processo in Europa per aver «prestato aiuto ad abortire». Justyna Wydrzynska rischia fino a tre anni di carcere per aver fornito pillole abortive a una donna vittima di violenza domestica.
In Italia il diritto all’aborto – stabilito dalla legge 194 del 22 maggio 1978 – non sembra garantito ovunque. In Piemonte l’assessore Maurizio Marrone di Fratelli d’Italia ha stanziato un fondo di 400mila euro per i progetti di tutela materno-infantile. “Vita Nascente” ha lo scopo di incentivare donne che avrebbero voluto abortire a continuare la gravidanza, fornendo loro 4mila euro. Questa scelta è stata criticata da molte associazioni, tra cui il collettivo Non una di meno, che l’ha giudicata «inaccettabile», ritenendola uno strumento elettorale e di «posizionamento politico» ai danni della libera scelta delle donne.
Teresa (nome di fantasia per garantire il rispetto della privacy) racconta a Linkiesta che dopo aver scoperto di essere incinta si è rivolta alla propria ginecologa che solo in seguito si è rivelata obiettrice. La dottoressa le ha fornito informazioni false per dissuaderla: «Guarda che se abortisci faticherai ad avere figli in futuro». Il giorno dell’interruzione di gravidanza si è recata al San Camillo di Roma, dove il reparto per abortire si trova nel seminterrato, esattamente sotto quello di maternità, «sono entrata e c’era scritto ovunque “Benvenuto”». «Mi auguro che fosse un caso, ma nella sala d’aspetto c’era come sottofondo la canzone “Avrai” di Claudio Baglioni. È stato surreale».
Miriam ha manifestato l’intenzione di non portare avanti la gravidanza al suo ginecologo di Pontremoli. «Ma come, non sei contenta? Lo devi tenere, in Italia non puoi più fare niente», erano infatti già passati i 90 giorni entro cui, per legge, l’aborto è consentito. Dopo averle fatto l’ecografia e mostrato piedi e mani del feto, le ha detto che avrebbe commesso un omicidio, «sei giovane, non ti serve un uomo, puoi farcela da sola».
«Ero disperata, io quella gravidanza non la volevo. Sono venuta a sapere che potevo andare in Spagna, ma dovevo prima fare una visita dal mio ginecologo. A lui sono stata obbligata a dire che avrei tenuto il bambino o non mi avrebbe visitata. Il 16 febbraio sono partita per Barcellona, il 17 ho iniziato i controlli presso il Centro Médico Aragón. Ho pagato più di 1000 euro per abortire, lì il prezzo dipende dalla settimana in cui sei», ha aggiunto.
In seguito ha deciso di cambiare ginecologo, ma per trovarne uno non obiettore si sposta fuori regione. Secondo i dati dell’associazione Luca Coscioni sono obiettori 7 ginecologi su 10.
Anche Serena, che ha praticato l’ivg a Torino, ha sollevato la questione degli obiettori di coscienza. «Per me ognuno può avere la propria opinione, ma se sei un medico la tua ideologia dovrebbe rimanere fuori dal reparto». E ancora: «Mi hanno fatta rimanere un’ora e mezza da sola in sala d’attesa, proprio davanti a dove avrei abortito. I miei pensieri in quel momento oscillavano tra “ok lo tengo”, “ora mi alzo e me ne vado” e “rimango, è la scelta giusta per me”. Mi hanno fatto sentire il battito prima di abortire, è stato brutto». Prima di uscire le hanno fatto una visita ginecologica, «il medico non ha avuto nessuna delicatezza, mi ha fatto molto male, non vedevo l’ora di uscire», ha affermato.
Gloria è rimasta incinta nonostante la pillola del giorno dopo. Ha deciso di abortire e, per avere pareri diversi, si è rivolta a due ginecologi. «Il primo è stato disponibile, mi ha spiegato in che cosa sarebbe consistito l’aborto e mi ha fatto il foglio apposito. La seconda è stata più insistente. A un certo punto prima dell’ecografia interna mi ha detto “speriamo sia morto il feto, così non hai più da scegliere”». L’interruzione di gravidanza è avvenuta a Mondovì, in provincia di Cuneo. «Ore e ore di attesa, un’infermiera ha trattato me e la mia vicina di letto come se fossimo due carcerate. Io avevo così paura che ho vomitato dall’ansia, ma non ho avuto una parola di conforto. Siamo state chiuse tutto il giorno in quella stanza».
In seguito all’aborto «siamo state veramente male, ma non ci è stato dato nulla. Abbiamo chiesto un tè caldo, ma non ci è stato concesso. Nonostante fosse una mia scelta è stato doloroso. Mi sarebbe piaciuto avere uno specialista a fianco, o anche solo un po’ di gentilezza in un momento così delicato».
Sara ha vissuto una situazione simile presso consultorio e ospedale di Cuneo. «Sono stata malissimo dopo l’aborto farmacologico. Il medico mi ha detto “ha preso questa decisione, ora se ne assume le responsabilità”». Nonostante la richiesta di qualcosa per alleviare il dolore, nessuno le ha somministrato nulla. Solo a posteriori ha scoperto dal medico di base che poteva prendere la tachipirina.
«Ci sono casi scandalosi in Italia, come quello dell’ospedale universitario Umberto I di Roma, che sembra non faccia aborti farmacologici e rimandi i pazienti al San Camillo», afferma Roberta Lazzeri di Pro-choice Rete italiana contraccezione aborto. Alcuni ospedali dichiarano di praticare l’aborto farmacologico fino alla nona settimana, «ma poi nei fatti lo negano passata la settima». Spesso la donna incontra ostacoli fin dall’inizio, «è difficile trovare qualcuno che già solo faccia il certificato, ma qualunque medico lo può fare, anche uno di base».
La rete Pro-choice è una formazione multidisciplinare che ha l’obiettivo di rimuovere gli ostacoli che ancora oggi ci sono in Italia sia sulla contraccezione che sull’aborto. Fa campagne su obiettivi specifici, come è stato per la modifica delle linee di indirizzo ministeriali su aborto farmacologico e il certificato telemedico, e offre supporto informativo alle donne che hanno difficoltà ad accedere ai servizi.
Le difficoltà che si incontrano nell’abortire spesso portano le persone a trovare strade alternative. Prima dell’entrata in vigore della 194 si parlava di “aborto clandestino”. Adesso chi può va all’estero, chi non può utilizza Internet. Trovare le dosi necessarie e reperire la Ru486 in rete è molto semplice, si può far arrivare a casa direttamente. Secondo Roberta Lazzeri, «un aborto fuori dalla legge può non essere pericoloso a certe condizioni, ma gli ostacoli che si incontrano in Italia fanno sì che lo diventi».
In molti Stati c’è la telemedicina, e i pazienti sono seguiti a distanza da operatori sanitari. In Italia no. E la conseguenza è che è possibile prendere una dose sbagliata del farmaco acquistato su Internet e pagarne le conseguenze.
Si faticano a trovare dati sugli aborti svolti nelle strutture apposite, gli ultimi risalgono a 3 anni fa, ma sono inutilizzabili perché dovrebbero essere disaggregati. Sull’aborto fuori dalla legge i numeri sono praticamente inesistenti, si stimano all’anno tra i 12mila e i 15mila casi tra le donne italiane e tra i 3mila e i 5mila tra quelle straniere. Ma questa stima, effettuata dall’Istituto Superiore di Sanità, risale al 2012.
Bisognerebbe ripartire dalla legge. La 194 è «frutto di un compromesso politico», afferma l’avvocata Giulia Crivellini, membro di Libera di Abortire. «Sono decenni che questa legge viene violata impunemente». Secondo quanto stabilisce l’articolo 9, le regioni dovrebbero controllarne l’attuazione, provvedendo – se necessario – alla mobilità del personale per garantire il servizio, «ma ci sono regioni in cui ciò non avviene». Molti sostengono che «la 194 non si tocca», in realtà consente altri tassi di obiezione e avrebbe bisogno di essere riformulata per poter stare al passo con i tempi.
Oltre agli obiettori di coscienza ci sono altri ostacoli, soprattutto la mancanza di informazione (o disinformazione), le donne non sanno dove andare, a chi chiedere. Secondo Giulia Crivellini questa difficoltà inizia banalmente dal sito del ministero della Salute. «Stiamo chiedendo di rifare il sito, inserendo ad esempio una mappatura delle strutture in cui è possibile abortire». Ma gli ostacoli non si limitano a prima e durante l’aborto, continuano anche dopo. Tristemente noti sono i cimiteri dei feti, ma risale solo a qualche mese fa la proposta di Fdi di procedere alla loro sepoltura anche senza il consenso della donna.
Fino a pochi giorni fa non si poteva dare il cognome della madre alla nascita, «ma non ci sono mai stati problemi nell’apporlo quando la donna decide di abortire».