Scegliere cosa portare in tavola è un “fatto” culturale, sociale e sensoriale, ma anche emotivo e psicologico. Ciascuno ha dei piatti preferiti, che appagano maggiormente il suo palato o che lo riportano indietro nel tempo, che si associano a momenti di convivialità o rappresentano più a pieno l’adesione a una fede religiosa o l’adozione di uno stile di vita basato su una convinzione etica personale. Insomma, ogni giorno il cibo diventa al tempo stesso nutrimento e simbolo, ricordo e “manifesto” morale. Ma sempre più spesso, soprattutto nelle società occidentali e consumistiche, la dimensione emotiva finisce col prevalere sulle altre, determinando comportamenti alimentari “estremi”, non sempre salutari e spesso sintomo di un disagio interiore.
Dal comfort food al fear food: il cibo diventa “spaventoso”
Se più o meno tutti abbiamo provato l’effetto “consolatorio” del comfort food (mai ricevuta una caramella come antidoto ai capricci? o affogato un momento di tristezza in una vaschetta di gelato?), in alcune persone la dimensione emozionale del cibo assume proporzioni tali da sovrastare tutte le altre componenti che dovrebbero determinare la decisione di “cosa mangiare”. È il caso di chi soffre di cibofobia (o sitofobia), ovvero la paura irrazionale e incontrollabile di alcuni alimenti o dell’atto stesso di mangiare.
A ciascuno la sua cibofobia
C’è chi rifiuta cibi nuovi e sconosciuti, chi ha paura di deglutire alimenti con una consistenza troppo solida o appiccicosa, chi evita quelli con una specifica forma, chi si tiene alla larga da un determinato colore. In alcuni casi invece a innescare una reazione psicoemotiva avversa è un alimento specifico (banane, aglio, spaghetti) o un’intera “categoria” (carne, pesce, formaggio, alcolici, vegetali). Infine non manca chi va nel panico all’idea di mangiare del cibo preparato da altri, di cui non ha controllato la provenienza, la scadenza e la manipolazione. Insomma, la cibofobia può manifestarsi nelle forme più diverse e avere un differente impatto sulla vita di chi ne soffre.
La tendenza a escludere dalla dieta i cibi in base ad alcune caratteristiche specifiche è detta Arfid (Avoidant restrictive food intake disorder), un disturbo evitante-restrittivo che non va confuso con i più noti DCA (disturbi del comportamento alimentare) come anoressia, bulimia e ortoressia. Si tratta in ogni caso di una vera e propria malattia e, a seconda delle declinazioni che assume, può avere effetti dannosi tanto dal punto di vista fisico quanto dal punto di vista psicoemotivo. Infatti al solo pensiero di consumare alcuni alimenti, chi soffre di cibofobia tende a sviluppare sintomi ansiosi, che nei casi più gravi sfociano in veri e propri attacchi di panico al momento dei pasti, e questo apre la strada a conseguenze vanno dalle carenze nutrizionali alla difficoltà relazionali (mangiare in compagnia diventa sempre più difficile).
La causa non è mai una sola
In genere si ritiene che le fobie riguardanti il cibo dipendano da un complesso insieme di fattori che si sommano tra loro nel tempo, come traumi o incidenti subiti durante l’infanzia. Esempi classici sono aver vissuto da bambini l’imposizione a mangiare un determinato alimento, verso il quale da adulti si sviluppa una repulsione talvolta patologica, oppure aver sperimentato un episodio di malessere dopo aver consumato una certa pietanza, il cui ricordo permane a livello più o meno conscio, scatenando un meccanismo di evitamento di qualsiasi cibo ricordi quello particolare che lo ha provocato. Secondo gli esperti possono contribuire a innescare queste dinamiche disfunzionali anche le abitudini e i pregiudizi relativi a determinati cibi appresi in famiglia. Infatti, non è raro che siano proprio i genitori a trasmettere le proprie fobie ai figli. Ma può avere un ruolo anche la più recente tendenza ad attingere dal web informazioni su danno e benefici di determinate scelte alimentari, senza verificare da fonti certe se siano veritiere e a quali condizioni.
Paura delle “novità soffocanti”?
Come si è detto, le fobie alimentari possono riguardare l’aspetto, le caratteristiche organolettiche e/o le proprietà nutrizionali di ciò che si mette nel piatto, nonché i presunti effetti che uno o più ingredienti potrebbero avere su chi li ingerisce. Altre sono però meno “selettive” e dunque più problematiche da gestire, come per esempio la paura dei cibi nuovi (neofobia) e quella di deglutire (fagofobia o disfagia psicogena). La prima è frequente soprattutto durante l’infanzia, in particolare intorno ai 2-3 anni, ma tende a scomparire naturalmente dopo i 5 anni. Quando persiste fino all’età adulta, nella maggior parte dei casi, dipende da una predisposizione individuale, incentivata dalle abitudini apprese in famiglia. La seconda invece colpisce persone che, seppur in assenza di reali disfunzioni fisiche, fanno fatica a deglutire cibi solidi, per timore di rimanere soffocate; nella sua forma più grave si trasforma in anginofobia, che riguarda anche gli alimenti più morbidi, i liquidi e, talvolta, persino la stessa saliva.
Il salutismo esasperato è parte del problema
L’esasperazione delle moderne filosofie di vita, basate sul salutismo e sul mantenimento della forma fisica è alla base di comportamenti alimentari noti come ortoressia e bigoressia. Non ancora riconosciute come vere e proprie malattie dalla comunità scientifica internazionale, queste “mode” si stanno diffondendo sempre di più come veri e propri disturbi alimentari, caratterizzati dalla ricerca ossessiva e dalla dipendenza dal cibo sano, capace di mantenere “puro” l’organismo. Chi ne soffre sviluppa vere e proprie forme di ipocondria legate al timore della contaminazione alimentare ed è ossessionato dal desiderio di avere un corpo forte e resistente alle malattie o ai segni del tempo. Per questo trascorre ore nella ricerca del cibo che considera più sano (generalmente optando per quello biologico) e prepararlo nel modo che ritengono corretto per non renderlo “tossico”.
Alcune fobie davvero bizzarre
Esistono fobie alimentari molto particolari, estremamente specifiche e a dir poco “strane”. Alcuni esempi? La bananafobia (paura delle banane), l’alliumfobia (paura dell’aglio), la carnofobia e l’ittiofobia (paura della carne e del pesce), la turofobia (avversione al formaggio), l’alektorofobia (repulsione per il pollo), la lachanofobia (rifiuto dei vegetali) e la lycopersicofobia (avversione scatenata dai pomodori e, nello specifico, dai loro semi o dalla buccia). Ci sono anche la metifobia (paura degli alcolici in generale), che rende difficile persino attraversare le corsie del supermercato dedicate agli alcolici, la xocolatofobia (paura del cioccolato) e l’arachibuytrofobia, che prende il nome dal burro d’arachidi, ma può riguardare qualsiasi alimento appiccicoso: chi soffre di questo disturbo teme possa attaccarsi al palato senza più rimedio! Non mancano neppure casi in cui a suscitare crisi d’ansia e attacchi di panico possono essere gli strumenti comunemente usati in cucina o a tavola: da quelli appuntiti come coltelli, forchette o cavatappi con cui si teme di ferirsi (belenofobia) a quelli più innocui come i cucchiai (koutaliafobia). Nelle forme più gravi, basta la vista o il solo pensiero di questi oggetti per scatenare la reazione emotiva.
Se la causa ruota attorno al cibo
A tavola, ma anche in cucina possono manifestarsi anche fobie che non riguardano specificamente il cibo, ma soprattutto la sua connotazione sociale, cioè le dinamiche conviviali e le aspettative che, tradizionalmente, si creano attorno all’atto del cucinare e del mangiare. Ne sono un esempio la mageirocofobia, ovvero la paura di cucinare che comprende non solo il timore di scottarsi, tagliarsi, ecc, ma soprattutto quello di deludere gli ospiti con un esperimento culinario non riuscito, di servire un cibo mal presentato o addirittura di intossicare gli invitati, l’enofobia, il terrore di scegliere il vino sbagliato e rovinare un’occasione speciale con un abbinamento poco adatto e la deipnofobia, la paura delle conversazioni a tavola, che può essere il risultato di uno o più eventi traumatici sopraggiunti in situazioni mangerecce (come una cena di famiglia o un pranzo di lavoro, ma anche il frutto di un’infanzia travagliata o di altre esperienze sociali fallite) che favoriscono l’associazione emozioni negative e atto del mangiare.
Recuperare il piacere di stare a tavola
Indipendentemente dalla forma in cui si manifesta, la cibofobia non va sottovalutata perché può causare gravi conseguenze. Chi ne soffre tende a evitare le situazioni che potrebbero scatenare la sua ansia, tenendosi alla larga dai fornelli e dalle occasioni conviviali, saltando i pasti o adottando una dieta molto restrittiva e squilibrata Poiché all’origine delle fobie alimentari c’è un problema psicologico e non fisico, per affrontare e correggere gli schemi comportamentali distorti nei confronti del cibo è meglio rivolgersi a un professionista e intraprendere un percorso di psicoterapia che aiuti a elaborare eventuali traumi, a ridurre l’ansia e a sostituire i meccanismi dannosi da essa determinati con altri più funzionali. Solo così si potrà recuperare il piacere della scoperta di nuovi sapori, nuovi piatti e nuovi luoghi, ma soprattutto il gusto della condivisione e della socializzazione che ruotano attorno all’atto stesso del cucinare e del mangiare.