Il messaggio di Casalegno arriva quasi un’ora dopo. Sono soltanto poche parole ma pesano come un macigno.
Mario, è uno Stone22.
Mandelli lo legge e resta lì con il cellulare in mano. Appoggia il telefono sulla scrivania come fosse una granata e guarda lo schermo illuminato finché non si oscura. Porta le mani al viso e si sfrega gli occhi.
Non adesso, non in questo momento.
Il messaggio è in codice. Ma per lui il significato è chiaro. È come se Casalegno gli avesse appena scaricato una carriola di merda davanti alla scrivania.
Anni fa lui e l’ispettore avevano seguito insieme un corso di aggiornamento sui crimini violenti che il ministero dell’Interno aveva concordato con l’FBI. Durante un seminario dedicato a «Profiling, psicologia e psicopatologia criminale» il professor Michael Stone, della Columbia University, aveva presentato uno studio sull’anatomia del male.
Dopo aver interrogato e studiato più di seicento criminali di tutti i generi, Stone aveva sviluppato una vera e propria scala. Una sorta di termometro utile a stabilire il livello di malvagità. Si partiva dal livello 1, l’omicidio per legittima difesa, per arrivare al livello massimo, quello dei torturatori e degli assassini psicopatici. Il 22, appunto.
La «scala del male» all’epoca era stata criticata da buona parte della comunità scientifica perché considerata troppo semplicistica. Il suo successo popolare invece era stato notevole, soprattutto negli Stati Uniti, tanto da ispirare una docuserie prodotta da un network televisivo internazionale.
Mandelli e Casalegno ne avevano apprezzato molto la pragmatica capacità di sintesi.
Da quando erano rientrati da Washington avevano iniziato a utilizzare i numeri della scala di Stone per comunicare tra loro, in una sorta di codice privato, la portata della gravità di un’indagine. E dopo il 22 non c’era nulla. C’era soltanto il buio.
Quel livello rappresenta la più grande rottura di coglioni immaginabile per un poliziotto. Un Everest da scalare senza l’aiuto di corde e di ossigeno, paradossalmente proprio nel momento in cui il mondo sta trattenendo il fiato.
Mentre sta riflettendo sulla notizia qualcuno bussa alla porta. Mandelli risponde con un prego che di gentile non ha niente. Qualche istante dopo sulla soglia si affaccia il volto sconosciuto di una giovane agente.
Capelli rossi, lentiggini, un bel viso rotondo e due grandi occhi azzurri, quasi una ragazzina. Dev’essere una nuova. Anche se gli sembra di averla già vista da qualche parte. Non saprebbe dire dove. Probabilmente poco prima, nel fitto bosco di divise davanti alla macchina per il caffè.
«Buongiorno» dice secco.
«Agente scelto Donati, dottore. Perdoni se la disturbo».
«Piacere. Venga pure, prego. Mi dica» soffia con voce stanca.
«Il vicequestore Pinducciu mi ha mandato a dirle di chiamarlo non appena le sarà possibile».
«Grazie, Donati» dice Mandelli cercando nel suo repertorio un tono più cortese. «A lei, commissario, è stato un piacere..». L’agente si ferma un attimo, sembra titubante.
«C’è dell’altro?»
«Sì, dottore. Le volevo dire che ho sentito molto parlare di lei».
«Ah… bene, e dove?» domanda incuriosito. «Alla Scuola Superiore ho qualche amico, immagino che lì..». La Donati fa no con la testa e sorride.
«No, a casa. è mia madre che mi ha parlato di lei… è Sandra Maggi».
Mandelli arrossisce e istintivamente si morde il labbro segnato da una piccola cicatrice, vecchio regalo di uno spacciatore nei lontani anni alla Mobile. Quella che ha davanti è la figlia di Sandra, ecco perché il suo volto gli risultava così familiare.
«Ma dai! La Sandrina… e come sta?»
«Bene dottore, mamma mi ha raccontato molte cose su di lei e mi ha chiesto di salutarla tanto». Gli occhi azzurri della ragazza ora brillano.
A Mandelli sembra di intravedere un pizzico di divertita malizia in quello sguardo, per cui si volta verso il computer e finge di leggere un’e-mail.
«Che sorpresa, Donati. Ovviamente contraccambi. Ma lei invece come fa di nome?»
«Gabriella».
Quello che segue è un breve silenzio imbarazzato. Alla fine è proprio Mandelli a romperlo.
«Facciamo così, Gabriella… quando siamo soli mi chiami pure Mario».
Per un attimo il commissario pensa di alzarsi e andare a darle la mano, invece alla fine la saluta e la congeda con un cenno del capo.
«Io… non so» dice la giovane agente prima di uscire. «Cos’è che non sa?»
«Non so se ce la farò a chiamarla per nome. Ma ci proverò dottore, a presto».
Gli rivolge un sorriso gentile e poi chiude la porta dietro di sé.
La figlia della Sandrina, pensa Mandelli. Che strano ritrovarsela davanti lì in ufficio. Quando si dice che la vita è sorprendente si sbaglia sempre per difetto.
I Maggi stavano sul ballatoio dirimpetto alla porta del loro storico appartamento di famiglia, nella vecchia casa di ringhiera sul Naviglio pavese, in cui peraltro sua madre aveva abitato fino alla morte.
Lui e Sandra si erano conosciuti all’ultimo anno di liceo. Dopo un’accesa lite durante un’assemblea d’istituto, scaturita per qualche sciocco motivo che ora neppure ricorda, si erano parlati e chiariti. In seguito lui le aveva proposto di sancire la pace andando a prendersi un gelato da Sartori, il migliore di Milano. Avevano ordinato due enormi coni e li avevano gustati nel giardino accanto alla Stazione Centrale, chiacchierando un po’ di tutto. Le ore erano passate veloci e si erano scoperti affini.
Da quel momento erano diventati complici inseparabili in ogni tipo di attività, dagli studi al tempo libero. Tra loro era cresciuto un sentimento di profonda intimità che li aveva portati a innamorarsi con l’ingenua e romantica foga tipica di quell’età. Avevano fatto l’amore per la prima volta durante un caldissimo pomeriggio estivo in cui si era scatenato un temporale improvviso. Quando sull’asfalto erano caduti i primi goccioloni, stavano bighellonando in bicicletta lungo il naviglio, all’altezza della Conca Fallata.
Avevano tagliato attraverso i campi sotto il diluvio, volando sui pedali tra l’intenso profumo dei fiori e della terra bagnata. Erano entrati come frecce nel grande cortile quadrato e dopo aver gettato le bici a terra si erano precipitati su per le scale esterne del palazzo correndo a perdifiato. Si erano riparati sotto la tettoia della soffitta tenendosi per mano e lì, ridendo, avevano incominciato ad asciugarsi a vicenda. Pian piano i loro gesti goffi si erano trasformati in delicate carezze. Poi si erano spogliati lentamente, in silenzio, con il sottofondo della pioggia che tamburellava sul tetto, scambiandosi baci sempre meno timidi. Da allora, per i due anni successivi, non avevano mai smesso di amarsi.
Poi un giorno tutto era finito con la rapidità di un ultimo lampo estivo. I Maggi si erano trasferiti. Il padre di Sandra aveva avuto una promozione e l’azienda petrolifera per cui lavorava lo aveva mandato a Trieste. Avevano affidato il destino del loro amore a lettere struggenti, poi erano passati alle telefonate che, a mano a mano, si erano fatte sempre più rare e malinconiche. Finché, dopo alcuni mesi di angoscioso silenzio, Sandra lo aveva chiamato dicendogli tra le lacrime di essersi innamorata di un altro.
Da quel momento per Mario Mandelli non aveva più smesso di piovere. Non certo come quel giorno d’estate sotto la tettoia. Era una pioggia tristemente diversa, che raggelava il suo animo anche nelle più spensierate giornate di festa.
Il sole era tornato a risplendere soltanto un anno più tardi, in quel meraviglioso giorno in cui aveva incontrato Marisa a una festa di compleanno. E dall’istante in cui l’aveva vista sorridere non era mai più tramontato.
Certo che ti stai proprio rimbambendo, pensa Mandelli mentre chiama il cellulare del vicequestore dal telefono dell’ufficio.
Pinducciu risponde dopo qualche istante.
«Stai in linea, Mandelli» dice sbrigativo. Lo sente discutere con qualcuno. «Questi sono pazzi, ma si rendono conto di cosa sta succedendo? Dove cazzo vivono, su Marte? Secondo loro mandiamo i nostri in giro senza mascherine?» L’intemerata è seguita da un rabbioso congedo.
da “Le notti senza sonno”, di Gian Andrea Cerone, Guanda, 2022, pagine 592, euro 19