Io sono arrivato in Isola nel 2006, a ventun anni, trasferendomi dal quartiere residenziale in cui abitavo con la mia famiglia. Se cʼera una pubblicistica dellʼIsola (e in effetti cʼera già, ma ancora molto sottovoce rispetto a quello che si sarebbe vista in seguito – il «quartierino», le «botteghe», la «classe creativa») non la conoscevo: ci aveva abitato una mia ragazza, e io stesso, in seguito, ci ero passato ogni tanto in cerca di serate remote. Volendo uscire da casa dei miei avevo guardato gli annunci sulla bacheca della biblioteca universitaria, e chiamato per la doppia che costava di meno; al numero, un fisso, non aveva risposto nessuno, e non avevo lasciato messaggi in segreteria. Ma uno dei miei futuri coinquilini aspettava il responso da un colloquio di lavoro, e trovando una chiamata sconosciuta mi ha ricontattato. Ho ottenuto la stanza così.
Raccontare nel 2022 questa storia del 2006 mi dà la sensazione di parlare di un mondo lontano. Lo è: i suoi elementi – gli annunci cartacei sulle bacheche, la segreteria del telefono fisso, con allʼinterno unʼaudiocassetta in miniatura – la mettono in continuità coi quarantʼanni precedenti più che coi dieci che sarebbero seguiti, che di tutto ciò avrebbero visto la sostanziale scomparsa.
Questo vale anche del paesaggio urbano in cui mi ero trasferito. Per molti versi, dalle città è scomparso anche quello.
Nel quartiere Isola del 2006 cʼerano le edicole. Cʼerano le facciate scrostate e gli appartamenti malmessi (il nostro aveva la doccia inservibile, una finestra rotta, le pareti coperte di anni di scritte e ripittate frettolose). Cʼera una comunità migrante vasta e variegata, che si ritrovava a fine pomeriggio o a sera attorno ai parcheggi di piazzale Archinto, in parte per fare vita collettiva in strada, in parte per spacciare. Cʼerano furti – lʼauto di un mio coinquilino è stata rubata tre volte nei pochi mesi in cui siamo stati lì. Cʼerano trattorie pessime e bar sport cenciosi, cʼerano pizzerie coi tavoli di plastica rossa, cʼera un locale aperto tutta la notte coi buchi di proiettile nellʼintonaco di un muro. Cʼera un tratto di bosco incastrato fra un vasto parcheggio e la spalletta di un viale a scorrimento intenso. Cʼerano gli spazi interstiziali, in ombra, in cui lʼapparato della città tollerava ipocritamente ciò che alla luce non trovava posto: gli angoli noti della prostituzione, il bar coi terminali Minitel per la chat erotica, i club per scambisti, il capannone industriale col primo locale gay di Milano. Cʼerano gli spazi occupati (uno, Piano Terra, resiste ancora in via Confalonieri, eroicamente, nonostante per dimensioni sia purtroppo non paragonabile a quello che si poteva trovare qualche anno fa). Cʼerano gli spazi vuoti, abbandonati, in rovina: la palestra scolastica condannata dallʼasbesto, la torre deserta già sede del Pci, il lembo di sterrato adibito a deposito edile, la fabbrica diroccata che sarebbe diventata la Stecca.
Non sto cercando di romanticizzare la marginalità, né di dipingere con nostalgia ed esotismo una situazione di disagio in cui io, per privilegio, ero solo di passaggio. Pur non volendolo sono consapevole di farlo comunque, mio malgrado: ma oltre alla romanticizzazione e allʼesotismo cʼè qualcosʼaltro di cui vorrei parlare. È questo: anche le cose che ho descritto, come il telefono fisso e gli annunci di carta, sono in continuità col mezzo secolo precedente molto più che coi dieci anni a seguire. Anzi: per certi versi aspetti del genere hanno fatto parte dellʼesperienza della metropoli per tutto il Novecento – forse anche da prima. Si potrebbe anzi dire che sono stati una condizione essenziale della grande città: la prossimità di splendore e miseria, la sovrapposizione del centro e dei margini, di lusso e degrado.
Ora questo non esiste più. Le grandi città sembrano diventare sempre più omogenee, sempre più solo centro. Il che non significa che le marginalità non esistano (sono, in larga misura, persino più marginali di prima), ma che sono relegate in sacche omogenee lontane e cordonate, sul modello delle banlieues, in contrasto con lʼidea già ottocentesca di metropoli che prevedeva la compressione degli opposti, lʼintersezione di traiettorie divergenti. Dire che un gruppo di persone può camminare in strada approfittando della confusione di un giorno di mercato, e con un flessibile a batteria forzare lʼingresso in un palazzo vuoto a due passi dal centro di Milano e prenderselo, oggi, sembra come dire che a notte occorre fare attenzione a non essere aggrediti dai branchi di velociraptor.
Eppure io cʼero, quel giorno di mercato.
da “La rivoluzione è in pausa”, di Vincenzo Latronico, Einaudi collana e-book Quanti, pagine 42, euro 2,99