Compito in classe: prendete una grossa amarena intinta nel suo sciroppo e trasferitela per una quindicina di giorni nella salamoia delle olive. Il sapore leggermente amarognolo bilancerà la dolcezza del frutto e il matrimonio sarà compiuto. A Matteo Baronetto, chef del ristorante Del Cambio, una stella Michelin, piace scombinare le carte nel tempio che fu di Cavour dove, tra sedie di velluto rosso e lampadari scintillanti, potrebbe sembrare un’eresia servire due foglie di insalata – sì, due soltanto – condite dallo sciroppo d’amarene e un’oliva. Eppure la magia che si compie è cristallina, arriva al palato e conquista i sensi. Tutti. Per prima la vista perché “Oliva e amarena”, il primo dei tanti tandem gastronomici sorprendenti pensati da Baronetto, è un piatto “grafico”, composto, rigoroso. Perfetto nella sua semplicità da suonare disarmante, tanto che per un attimo si è quasi tentati di pensare “questo l’avrei potuto fare io” come quei quadri all’apparenza “facili” alla vista dei non addetti ai lavori. Peccato che qualcuno ci abbia pensato prima e, esattamente come nell’arte, il nocciolo della questione sia sempre lo stesso: vale chi lo fa per primo, ché delle repliche conosciamo tutti il valore.
È arte, avanguardia, cucina? Tutte queste cose insieme, spiega lo chef che, nel pieno della sua maturità creativa, ha voluto fissare su carta questi matrimoni a prima vista impossibili, ma di fatto compiutissimi, tra materie prime lontane. Galeotto l’incontro con il giovane Manfredi Nicolò Maretti, alla guida di una piccola casa editrice specializzata in libri d’arte. “Iconiche similitudini” (Maretti editore, tiratura limitata a 350 copie autografate, 27 euro) non è un ricettario, piuttosto un diario dove Baronetto restituisce le sue scoperte sottoforma di racconto, di aneddoto. Un libro “assoluto” a metà strada tra arte e cucina, una chicca per collezionisti «e sì – ammette – anche un regalo che volevo farmi per celebrare quello che noi italiani sappiamo fare meglio e per cui siamo riconosciuti in tutto il mondo: cibo, moda, design».
Non ci sono fotografie a illustrare i piatti ma disegni astratti realizzati da Edoardo Maria Manuguerra. L’intuizione del piatto è un lampo che arriva improvviso, mentre lo schizzo ha il compito di fissare la suggestione in modo che, una volta finito il piatto, il sapore non si perda. Nel libro c’è anche un omaggio a Bob Noto, una telefonata immaginaria all’amico che non c’è più. «Ho pensato a cosa gli avrei detto se fosse stato qui. Sicuramente si sarebbe divertito a vedere questi piatti».
Se i piaceri semplici sono l’ultimo rifugio delle persone complicate, come scriveva Oscar Wilde, allora forse la scoperta, il travestimento della materia prima, la sua astrazione che la trasforma in qualcos’altro, può valere davvero il biglietto. Ogni piatto diventa un link, un lampo che apre collegamenti di senso tra sapori diversissimi: rana pescatrice e coniglio, alga nori e pelle di branzino, capesante e midollo e così via. Similitudini, impensabili però per chiunque non sia dotato di un palato assoluto. Chi potrebbe accostare il lardo alla seppia? Eppure se serviti sottilissimi, si rivelano due strepitosi compagni di viaggio, esattamente come “Salmone e foie gras”: la regola aurea dice di non unire grassezza a grassezza però al palato questa somma al quadrato si annulla.
Infrangere qualche divieto, come fanno i bambini curiosi, può davvero portare lontano. E chissà quali giochi faceva da piccolo Baronetto per arrivare da grande a immaginare un piatto come “Uovo o calamaro?”, una sorta di “trova le differenze” in versione gastronomica tra due elementi – uovo sodo marinato in aceto e rondelle di calamaro – entrambi bianchi e tagliati dello stesso spessore, che giocano a mimetizzarsi nel piatto. Bisogna usare tutti i sensi per uscire indenni da questo tranello perfettamente orchestrato perché quello che all’apparenza potrebbe sembrare un esercizio di stile fine a sé stesso rivela al primo boccone tutta la complessità tecnica necessaria a ottenere la stessa consistenza dai due ingredienti. Come equilibristi al circo si cammina su fili sottili, si resta a bocca aperta come succedeva da bambini davanti a qualcosa di nuovo: «Scommettiamo che ti sbagli? Questo è uovo!» per poi scoprire al primo morso che non lo è.
Raccontano i ragazzi di sala della volta in cui un cliente abituale venne piacevolmente ingannato dal finto “peperone e acciuga” – la merenda sinoira estiva per eccellenza, l’inizio di ogni cena rustica in Langa – in cui le fette sottilissime e rosse al palato si rivelano essere – sorpresa! – anguria passata per una notte in forno, tagliata a forma di falda e lucidata da una pennellata di olio al rosmarino. Nel cuore della Torino magica, può succedere anche questo.