Ossa dure, cervello di plasticaCiò che potremmo essere

In questo prologo letterario che pronuncerà alla Milanesiana, il festival itinerante che promuove il dialogo tra le arti, Lucrezia Lerro svela una confessione della sua indigenza infantile in cui fa capire perché non si dovrebbe trascurare mai la propria forza di volontà. Impegnarsi ad aiutare chi sta intorno a noi è fondamentale per con stare bene con noi stessi

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La Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, è il più grande festival itinerante che promuove il dialogo tra le arti, un festival di respiro internazionale che tesse relazioni tra letteratura, musica, cinema, scienza, arte, filosofia, teatro, diritto, economia e sport e che anno dopo anno diventa sempre più protagonista delle estati italiane. Dal 4 giugno è tornato con la sua 23esima edizione dedicata al tema OMISSIONI, in 20 città diverse con oltre 60 incontri ed eventi, accogliendo più di 150 ospiti italiani e internazionali. Il logo de festival è la Rosa dipinta da Franco Battiato, che fin dalla prima edizione è il simbolo de La Milanesiana ed è stata rielaborata anche quest’anno da Franco Achilli. Giovedì 21 giugno a Pavia (Almo Collegio Borromeo, ore 21) si svolge la serata “Omissioni”, nella cornice della MIlanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi. Letture di Leila Slimani, Elizabeth Day, Lucrezia Lerro. A seguire concerto di Paolo Fresu & Dino Rubino. Saluti istituzionali di Alberto Lolli.

Su ciò che potremmo essere.

Nei miei quarantacinque anni di vita le situazioni difficili e sfortunate non sono mai mancate, ma tanto ho imparato sia dal dolore familiare che da quello psicologico.

Il primo ricordo infelice risale ai tre anni, ancora mi rivedo mentre salgo a fatica gli scalini che da casa mi avrebbero portato nella scuola materna, appena poggiavo i piedi sul nuovo scalino mi voltavo verso la strada per cercare mia madre, non la vedevo, non incrociavo lo sguardo che anche da lontano avrei voluto che mi rassicurasse, lei non c’era. Fu allora che ebbi per la prima volta la sensazione di precipitare, lì per lì ebbi paura di poter rotolare giù per le scale senza alcuna possibilità di salvezza. Mia madre, l’avevo salutata in lacrime sulla porta di casa, non so perché stesse piangendo, non l’ho mai scoperto, ma so che quel pianto mi ha straziato da bambina. Una figlia non dovrebbe veder piangere un genitore, in particolare la sua mamma. Qualche giorno dopo dall’inserimento alle materne mia madre sparì, lasciò mio padre all’alba di un giovedì ed io da allora non la vidi per lunghissimi giorni.

Soltanto col tempo ho imparato a gestire l’abbandono materno, e grazie alla volontà di non soccombere a quello che sembrava un destino familiare, vale a dire diventare la somma delle peggiori debolezze materne e paterne, posso raccontare stasera, che non solo sono sopravvissuta al peggiore dei mali, ma che la deprivazione subita da piccola, che avrebbe potuto uccidermi, mi permette di essere qui a Pavia, e di raccontarlo alla Milanesiana di Elisabetta Sgarbi, che ringrazio di cuore per tutte le volte che mi ha dato la parola nel suo Festival di letteratura, musica, cinema, scienza, arte, filosofia, teatro, diritto, economia e sport. La Milanesiana è un festival che amo da moltissimi anni e ci tengo a dirlo per evitare omissioni affettive.
Se sono con voi stasera lo devo alla bambina che non ha accettato durante l’infanzia di farsi schiacciare dall’abbandono, e che poi da grande ha dato voce al dolore attraverso le parole, alle quali ha dato credito.

In seguito alle mie esperienze infantili dolorose, fin da giovanissima, ho pensato che non si restasse per sempre la stessa cosa, a dispetto dei cosiddetti adulti che invece cercavano di convincermi che fosse il contrario, ovvero che se nascevi povera saresti rimasta tale, che se i tuoi genitori non avevano studiato non l’avresti fatto neanche tu. Col tempo ho fatto tutto quello che mi dicevano che non si poteva fare: studiare, guarire da una patologia in particolare, aiutare gli altri. Quando da adolescente costoro sottolineavano che non avrei potuto fare questo e quell’altro, mi instillavano senza saperlo il desiderio di essere diversa da loro e di farcela, erano i detrattori che catalizzavano in me una forma di ribellione e resistenza che mi sosteneva affinché potessi essere e diventare differente da loro. Dicevo che ho pensato, fin da giovanissima, che non si rimane per sempre la stessa cosa, né un’insicura né un complessato, né un’anoressica né un tossicodipendente, né un alcolista né un depresso, né troppo silenziosi né logorroici, né balbuzienti né troppo normali, né troppo timidi né troppo estroversi, né deprivati né troppo amati, le neuroscienze ci dicono che il cervello è plastico, che ci modifica grazie alle esperienze che lasciano tracce nella nostra vita psichica. Sono le esperienze quotidiane che mutano i comportamenti che spesso ci mettono a disagio innanzitutto con noi stessi. Ed è proprio per nascondere il disagio che molte volte inciampiamo nelle omissioni verbali che diventano un meccanismo di difesa al quale aggrapparci nelle situazioni difficili.

Vi racconto un altro episodio che in passato mi ha riguardato, che credo possa essere utile per addentrarmi nel tema delicato e difficile delle omissioni, un tema cruciale e sorprendente che apre al dialogo con se stessi. Qualche anno fa mi capitava in alcune gelaterie che frequentavo con assiduità, poiché il gelato è una mia ossessione da sempre, e ancor prima che arrivasse la pandemia le gelaterie erano per me seconde case, di prestare attenzione particolare ad alcuni dettagli; notavo ogni volta che mi trovavo di fronte al banco dei gelati e che ero sul punto di ordinare il mio, che il commesso di turno prima di servirmi aveva appena finito di recuperare i soldi alla cassa dal cliente che mi precedeva, quindi mi avrebbe servito il cono con le mani sporche, e dopo aver toccato i soldi dei clienti precedenti all’ultimo, tutte le volte avrei voluto dire al commesso: “potrebbe lavarsi le mani e indossare un paio di guanti puliti? Non prenda con le dita non pulite il cono che poi mangerò.”

Mi capitava in gelateria, in quelle occasioni, di avere sulla punta della lingua le parole che avrei voluto dire ma mentre stavo per parlare mi guardavo intorno e notavo che la gente non si preoccupava affatto dell’igiene del commesso che aveva servito loro il gelato, e così sentendomi diversa, come mi ero sentita sulle scale da bambina senza mia madre di fianco, tacevo per paura che gli avventori e il commesso farfugliassero: “ma questa è matta.” A lungo mi è capitato di omettere il bisogno di dire ai commessi delle gelaterie, che frequentavo per troppa gola e per un eccesso di compensazione a causa della deprivazione infantile patita, e visto che in me sopravviveva anche da grande la bambina che era ancora troppo golosa per non essere triste, di igienizzarsi le mani prima di prendere il mio cono. Saltavo un passaggio fondamentale per i miei nervi già messi a dura prova dall’ansia da malattia, sì perché l’ipocondria mi assillava a quei tempi e mordeva per giornate intere.

Uscita dal negozio con il gelato nelle mani, finivo per mangiare con il cucchiaino la parte superiore e poi buttavo l’intero cono perché era un problema aver notato che il commesso aveva toccato ripetutamente i soldi e subito dopo il cono. Un pomeriggio mentre passeggiavo in corso Buenos Aires a Milano, entrai in una gelateria, la commessa stava facendo cassa, finito con la cliente, si rivolse a me: “Buongiorno signora, che gusti le servo?” La guardai con attenzione e con sospetto, portava una cuffietta che le nascondeva i capelli scuri, aveva degli occhiali da vista con una montatura sgargiante, il grembiule bianco la vestiva dalla testa a metà busto. Di colpo le risposi: “Potrebbe per favore usare dei guanti per servirmi il gelato? Ha toccato i soldi fino ad un secondo fa…”

La ragazza non sembrò risentirsi, mantenne una calma, forse, apparente, “certo,” rispose. Ed io incalzai: “Dovrebbe però disinfettarsi anche le mani…” e lei sollevando appena le spalle, “se uso il gel poi faccio fatica a infilare i guanti, lo uso lo stesso?” Ed io prontamente: “sì ho capito, ma se tocca i guanti con le mani sporche finisce per sporcarli… se le lavi, e dopo se le asciughi e metta i guanti.”

La ragazza manteneva ancora la calma, si diede del gel sulle mani, le frizionò per alcuni secondi e dopo le lavò con l’acqua corrente, le asciugò con una salvietta e si infilò i guanti. Mi sentii così libera di non aver finalmente omesso il passaggio tanto importante per la mia ansia di contrarre delle malattie, mi sentii all’improvviso in pace, avevo avuto il coraggio dopo tantissimi anni di dire ciò che mi faceva soffrire, l’effetto benefico fu immediato sui pensieri, non mi ero tradita, avevo parlato rischiando di sembrare matta. Mi guardai intorno, una coppia-buonissimo. Da lì in poi avrei frequentato le gelaterie di Milano senza aver paura di esternare il mio disagio alle commesse e ai commessi, nel caso in cui non si fossero igienizzati le mani prima di prendere il mio cono.

Un giorno entrai in una delle gelaterie di cui ho raccontato, una ragazza che mi aveva servito una volta, appena mi vide sulla porta, disse a voce alta: “Buongiorno signora, finisco con la cassa e sono da lei. Mi disinfetto le mani, dopo le lavo e alla fine metterò i guanti, prende il solito cono?” Finalmente ero libera di parlare, di raccontare persino le mie angosce. All’improvviso vidi nello sguardo della commessa quello di mia madre, lo sguardo che avevo cercato a lungo sulle scale che mi avrebbero portato da sola nella scuola materna. Mi sentii felice, ma solo per un istante.

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