Al luna park di periferia, dove si gioca alla slot machine della politica, sia Giuseppe Conte sua Luigi Di Maio da separati hanno il medesimo problema, quello di trovare la strada per entrare in Parlamento l’anno prossimo, e per quanto si lambicchino il cervello sembra che ci sia solo un modo, alla Bob Dylan: knockin’ on Letta’s door.
Entrambi, sia Conte sia Di Maio, guardano al segretario del Partito democratico che nel vagheggiare il famoso campo largo dà a tutti, forse al di là delle stesse intenzioni, l’idea di un «venghino signori venghino», c’è gloria per tutti, aggiungi un posto a tavola che c’è un amico in più, dimenticandosi (ma qualcuno presto glielo ricorderà) delle caselle destinate ai dem vecchi e nuovi che anche grazie alla genialità del dimezzamento del numero dei parlamentari non basteranno per sfamare tutti gli appetiti, al centro e in periferia, senza contare i compagni della sinistra, verdi e quant’altro.
Problemi del Nazareno. E se non ci fosse posto sull’affollato autobus lettiano, in teoria nulla esclude che Di Maio e Conte, incapaci di fare un serio terzo polo perché non amalgamabili con altri riformisti, potrebbero persino andare dall’altra parte, se lì ci fosse spazio.
Molto difficile. In ogni caso, paradosso clamoroso, nello schema bipolare potremmo ritrovarci Conte e Di Maio sullo stesso palco a chiedere il voto per il campo largo sotto lo sguardo paterno del segretario del Pd, convinto che più vagoni e vagoncini si attaccano al suo treno e più rapido questo potrà correre verso la vittoria finale.
La scena è destinata comunque a essere abbastanza penosa e obiettivamente la figura che da anni Matteo Renzi adopera a proposito dei grillini – «scappati di casa» – fotografa perfettamente lo stato delle cose, essendo tutti loro, contiani e dimaiani, alla ricerca di un tetto sufficientemente largo, nella consapevolezza di poter ottenere percentuali a una cifra e forse nemmeno alta: il derby grillino non promette nulla di buono a nessuno dei due avversari.
È il mondo rovesciato del grillismo, nato per rifiutare le alleanze in nome di una diversità morale, antropologica, filosofica che la visionarietà del primo Grillo irrorava come fosse la piantina della nuova politica: contenuti, non alleanze. Sono finiti a invocare alleanze a prescindere dai contenuti. La nemesi più sorprendente della recente storia politica. Ma anche il segno più clamoroso del fallimento di un progetto.
Nessuno sta riflettendo su questo iperbolico mutare di pelle, tantomeno i diretti interessati essendo evidente che oggi l’unico pensiero dei politici di professione che navigano le acque melmose della politica è quello di trovare casa: e in questo quadro la piccola scialuppa dimaiana si è messa in moto agli ordini del ministro degli Esteri.
Il coordinatore è Vincenzo Spadafora, uomo provvisto di un certo know how ex margheritino-popolare che condivide la posizione di numero due con ma la sottosegretaria al ministero dell’’Economia Laura Castelli; capogruppo al Senato è il giornalista Primo Di Nicola, considerato da tutti un vecchio saggio, che ha già detto che non si ricandiderà; capogruppo alla Camera Iolanda Di Stasio, che è la compagna di Pietro Dettori, vecchio uomo-macchina del Movimento 5 stelle. Essendo chiario che “Ipif” è un partito personale, personalissimo, persino più di quello di Giuseppi, il nemico con cui Luigi Di Maio condivide l’ansia terribile della ricerca di un posto al sole.