KremkaramelL’abitudine molto “stupìda” della ritrazione dell’accento

Quando pronunciamo parole prese in prestito dal francese, i cognomi di origine triveneta, nomi geografici italiano o toponimi stranieri sembriamo Stanlio e Ollio. Si dice cognàc, non cògnac; Istànbul non Ìstanbul; Cattelàn non Càttelan

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Ve li ricordate Stanlio e Ollio, quel loro italiano improbabile infarcito di «stupìdo» che già da solo faceva ridere? Il celebre duo, nel doppiaggio dei vari Alberto Sordi, Carlo Croccolo, Mauro Zambuto, Elio Pandolfi, spostava gli accenti in avanti. Oggi avviene il contrario, con effetti non meno improbabili e altrettanto comici: il fenomeno crescente nell’italico universo linguistico-sonoro è la ritrazione dell’accento. 

Non ci riferiamo a quegli svarioni inveterati che investono parole del nostro vocabolario la cui corretta prosodia coabita, spesso minoritaria, con quella scorretta, come edìle, edùle, salùbre che la maggior parte dei parlanti pronuncia “èdile”, “èdule”, “sàlubre” (sono tutto sommato parole dotte e di circolazione limitata, per le quali si può comprendere l’incertezza), o (qui è più arduo trovare una spiegazione) rubrìca, mollìca, regìme che per molti sono inopinatamente “rùbrica”, “mòllica”, “règime” (in quest’ultimo caso, considerato il livello culturale perlopiù modesto di chi pronuncia così, si può tranquillamente escludere la reminiscenza del latino règimen). 

Del resto esistono anche parole che ammettono tanto l’accentazione piana (o parossitona) quanto quella sdrucciola (proparossitona): utensìle si rifà, al singolare, al neutro plurale latino utensìlia e si usa come sostantivo, mentre utènsile segue il latino utènsilem (le forme nominali dell’italiano si basano sull’accusativo) ed è aggettivo; pèrone e peròne si riferiscono allo stesso osso della gamba, ma il primo si adegua al modello latino, il secondo a quello greco; e lo stesso discorso vale per mimèsi e mìmesi, scleròsi e sclèrosi, necròsi e nècrosi e così via. Vogliamo invece parlare della ritrazione fatale che diuturnamente colpisce certe parole – prestiti non adattati da lingue straniere, nomi geografici, cognomi di origine regionale.

Prima vittima – non potrebbe essere altrimenti – è la lingua che sistematicamente colloca l’accento tonico sull’ultima sillaba sonora: il francese conosce quasi esclusivamente parole tronche. Siccome però le parole italiane sono per la maggior parte piane, ecco che cognàc (avvertenza: da qui in avanti indicheremo l’accento tonico sui vocaboli stranieri anche quando nella relativa grafia non compare) diventa “cògnac”, dépliant (pronuncia “depliàn”, l’accento acuto sulla e è un segno diacritico per indicare che quella vocale ha un suono chiuso) diventa “dèpliant” ecc. Fanno invece un ardimentoso doppio balzo, dall’ultima alla terzultima sillaba, due tipici dessert (“dessèr”, non “dèssert”) che nei locali di scarse pretese vengono in genere frettolosamente proposti in (unica) alternativa: “profítterol o cremcàramel?”. In qualche caso (incredibile visu), sulla lavagnetta o sul menù plastificato, alla pronuncia squisitamente zarra può corrispondere una trascrizione spaesante: “kremkaramel” – una parola unica, scritta senza accento ma va da sé sdrucciola – che fa pensare di essere capitati nella mensa di “Sturmtruppen”. Per inciso: neanche “il crème caramel” va bene, perché crème è femminile e quindi si dovrebbe dire “la crème caramel” (ossia “la crème au caramel”, la crema al caramello, con l’ellissi della preposizione articolata).

La medesima sorte delle parole prese dal francese tocca ai cognomi di origine triveneta che finiscono con –an (un po’ meno a quelli terminanti con –on): Trevisàn (da Treviso), Padoàn (da Padova), Cattelàn (dalla Catalogna, in latino Catalanus: cognome con diverse varianti nato con i flussi migratori dell’XI-XIII secoli dalla Spagna verso tutta la Penisola) sono diventati “Trèvisan”, “Pàdoan”, “Càttelan”. Ma spesso questo è avvenuto con la complicità degli interessati, specie se persone famose (ex ministri, artisti, presentatori), che nella pronuncia proparossitona avvertono probabilmente l’occasione di un lavacro di internazionalità atto a emendarsi dalle ristrettezze della dimensione locale. È improbabile che questa sdrucciolevole deriva sdrucciola avrebbe avuto il consenso del compianto leader del fu Partito comunista italiano, che sempre meno occasionalmente – incredibilissimum auditu – nell’anno del suo centenario accade di sentir evocare come Bèrlinguer (nonostante la figlia giornalista Rai ostinatamente continui a farsi chiamare Berlinguèr). Mentre, per ovvi motivi, non si può sondare l’opinione di Emilio Salgàri, pace al cognome suo, che per quasi tutti è ormai Sàlgari.

Una categoria di parole in cui la ritrazione colpisce senza ritegno è quella dei nomi geografici: il parossitono Friùli – dal latino Forum Iulii, Foro di Giulio (Cesare), antico nome di Cividale poi esteso a tutta la regione – sta perdendo la sua battaglia con il proparossitono Frìuli; il Belìce – fiume e relativa valle della Sicilia – l’ha già persa contro l’erroneo Bèlice entrato nelle orecchie degli italiani con le cronache televisive del disastroso terremoto del 1968, ed è rivelatore del fatalistico carattere locale il fatto che gli stessi siciliani ormai vi si siano adeguati.

Ma sono soprattutto i toponimi stranieri a subire i colpi del destino cinico e prosodicamente baro: la città basca di San Sebastián (che peraltro si scrive con l’accento acuto dove effettivamente va pronunciato) per gli italiani, quando va bene, è “San Sebàstian”, quando va male addirittura si rattrappisce in “San Sèbastian”; la turca Istànbul (così per i turchi) è ineluttabilmente “Ìstanbul” (anche per i giornalisti radiotelevisivi inviati colà, che evidentemente non si curano di orecchiare la parlata locale); l’ispanico El Salvadòr e la sua capitale San Salvadòr sono implacabilmente “El Sàlvador” e “San Sàlvador” (mentre, chissà perché, la brasiliana San Salvador de Bahía mantiene tutti i suoi accenti corretti: una discriminazione prosodica?); la svedese Götebòrg (pronuncia “Jötebòrj”, ma qui andiamo nel difficile) è per tutti “Gòteborg”; e così l’Ecuadòr diventa “Ècuador”, Chernòbyl diventa “Chèrnobyl”, l’Iràn “Ìran”, l’Iràq “Ìraq” e la sua capitale Baghdàd “Bàghdad”. Mentre, stranamente, la situazione si ribalta con tre città giapponesi tristemente famose: nella lingua del Sol levante l’accento tonico sostanzialmente non esiste ma una lieve intensificazione sonora si avverte sulla o di Hiròshima, sulla seconda a di Nagàsaki e sulla seconda u di Fukùshima, che invece in italiano, in ciò seguendo la pronuncia inglese, facciamo diventare piane.

In tutti questi casi – come anche nel caso del premio Nobèl (se provi a dirlo giusto ti guardano male) – è in effetti l’influenza della pronuncia inglese a trarre in inganno: quella reale ma anche quella che ci immaginiamo, nell’infondata convinzione di chi non la mastica troppo che questa lingua tenda univocamente alla ritrazione. Purtroppo per chi deve impararla non è così: nella maggior parte delle parole, soprattutto quelle composte di due sillabe, l’accento cade sulla prima, ma le parole quadri e pentasillabiche in genere non arretrano oltre la terz’ultima, spesso le trisillabe hanno l’accento sulla seconda (perfòrmance e non “pèrformance” come diciamo in Italia) e molte bisillabe l’hanno sull’ultima, e per complicare un po’ le cose la stessa parola bisillabica può essere piana se è un sostantivo o un aggettivo, tronca se è un verbo (come nel caso dell’aggettivo pèrfect e del verbo to perfèct o del sostantivo còntrol e del verbo to contròl), ma a questa regola che non è una vera regola la stessa parola che vi soggiace può sottrarsi nei composti: per esempio self-contròl, dove control è sostantivo, si pronuncia oltremanica con l’accento sull’ultima sillaba, al contrario di come siamo abituati a dire dalle nostre parti.

“Stupìdi”, potrebbero apostrofarci Stanlio e Ollio. Ecco, certe volte assomigliamo proprio a Stanlio e Ollio.

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