La mattina dopo torno a Bangkok e decido che, a lavoro finito, posso anche permettermi di fare il turista. Ritiro il completo su misura – salatissimo ma mi dona – e mi concedo un massaggio di due ore nel quartiere turistico di Rambuttri Village. Mi sposto in un ostello, unico viaggiatore con la valigia tra i backpacker, e la sera vengo trascinato da altri turisti in un pub irlandese in Khao San Road. Mi faccio fare un tatuaggio all’henné di un ananas sull’avambraccio e invio una foto a mia madre con «Ops» come didascalia. L’indomani scopro che il succo di una noce di cocco fresca e acerba è un eccezionale rimedio anti-sbronza e trovo una sfilza di messaggi inviati da una madre spaventata.
Scopro che il mio lavoro non è finito. La Thai Pineapple Industry Association mi informa con un messaggio che ora la presidentessa Nuchjaree Ruplek è disposta a incontrarmi. Quel pomeriggio la vedo per un caffè in un lussuoso centro commerciale. È lei a rappresentare le aziende del settore nelle trattative con il governo. Emergono le solite fluttuazioni, il sistematico alternarsi di sovrapproduzione e anni di scarsezza. A suo avviso le aziende e i coltivatori troveranno un modo migliore per collaborare. C’è un piano, dice, ma non vuole entrare nei dettagli. In soldoni l’intero settore deve diventare più efficiente e solido per unire le forze contro supermercati e intermediari. Quelle categorie che a suo dire mettono le aziende una contro l’altra, per lei rappresentano una spina nel fianco. Dopo l’incontro mando un messaggio all’intermediario olandese con cui mi ero sentito in precedenza. Gli chiedo cosa ne pensa dell’accusa che vede la sua categoria come colpevole e se davvero non me ne vuole parlare. Mi risponde che, se passo da lui, è disposto a spiegarmi il suo punto di vista – a patto di restare anonimo. Mi invia l’indirizzo di un posto dall’altra parte di Bangkok. Salto su un mototaxi e dopo una folle corsa di quarantacinque minuti, uno slalom nel traffico convulso, raggiungo un ristorante italiano. La cattiva reputazione degli intermediari è ingiustificata, mi dice. Ai supermercati non interessa soltanto il prezzo, anche la qualità conta. Poiché per un supermercato europeo è difficile occuparsi di tutto in prima persona, gli intermediari che conoscono bene il settore sono fondamentali. E così facendo lui ci guadagna, certo, ma cosa c’è di male? A differenza dei coltivatori, i suoi collaboratori ricevono un buono stipendio. Anzi, per lui i principali sfruttatori del settore sono le aziende, che si impegnano nel commercio equosolidale solo per aumentare i profitti, non per il bene dei contadini.
Ascolto con attenzione e mi prende lo sconforto. La scenario che mi viene descritto è cupo. Criminali attivi nell’arruolamento e nel traffico di persone dalla miseria del Myanmar, autorità thailandesi che guardano altrove e aziende senza troppi scrupoli. A suo dire i più grandi opportunisti si cela- no tra le decine di migliaia di piccoli coltivatori che lavorano dove in quel momento riescono a guadagnare di più.
Al contempo l’intermediario mi dice che i problemi nell’industria dell’ananas sono relativi. È un lavoro pesante e c’è carenza di personale, quindi molti dipendenti vengono trattati piuttosto bene, soprattutto in confronto ad altri settori in Thailandia o nei Paesi limitrofi.
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Se guardo il bicchiere mezzo vuoto, sono andato all’altro capo del mondo per una lezione di macroeconomia su domanda e offerta che avevo già ricevuto alle superiori. Una fatica immane per scoprire quanto già sapevo: si maltratta chi sta sotto e si incolpa chi sta sopra. È indubbio che ci siano degli abusi, ma non posso provarlo. Ho letto le indagini di ONG e organizzazioni umanitarie sull’agricoltura thailandese, ma a uno sguardo critico le accuse risultano inconsistenti. Spesso si basano su testimonianze di lavoratori anonimi, ai piedi della piramide, non verificate e talvolta di seconda mano. Devo sentirmi in colpa quando compro un ananas?
Tutti quelli cui l’ho chiesto in Thailandia mi hanno risposto che noi europei dovremmo mangiarne il più possibile perché questo porta vantaggio all’intera catena, anche se contemporaneamente favoriamo lo status quo del settore, con margini che in fondo alla catena si fanno sempre più sottili. Ora che conosco il lavoro richiesto per metterli nei barattoli e spedirli in tutto il mondo, mangiare ananas mi dà soprattutto un forte senso di decadenza. Decido di non sentirmi in colpa, ma di riflettere di più su quanto è semplice la mia vita. La mia ex non era più tornata, ma in quella settimana non avevo quasi pensato a lei. Dopo alcuni mesi fiacchi e inerti avevo riscoperto quante cose si potessero fare in pochi giorni. Le avventure legate all’ananas mi avevano reso felice, e soprattutto mi avevano portato a desiderarne altre.
Da “Ananas”, di Lex Boon, (Add Editore), traduzione di Francesco Panzeri, 256 pagine, 18 euro