L’ultimo degli illuministiLa vita fenomenale di Eugenio Scalfari, l’uomo che con le sue opere ha superato il tempo

È stato giornalista, pensatore, politico. Monarca e imprenditore. Di sinistra, ma consapevole delle evoluzioni che avrebbe dovuto affrontare il Pci per diventare moderno. Verso la fine dei suoi giorni le sue riflessioni sono arrivate a sfiorare il mistero del divino e della storia

© Roberto Monaldo / LaPresse

Ha vissuto quasi cento anni, biologicamente: ma la vita di Eugenio Scalfari è durata molto di più, almeno trecento anni: come se fosse nato nel secolo dei Lumi, seguace di Voltaire (anzi, si sentiva un po’ Voltaire) e con gli occhi dell’Illuminismo, sia pure corretto da uno scetticismo che gli veniva dall’origine borghese-meridionale, ha letto tutta la storia contemporanea: pensatore ma anche uomo pratico, avendo l’ombra del dubbio sempre allungata su certezze laiche talmente forti da sfiorare paradossalmente il religioso che egli cercò soprattutto, come capita sempre, alla fine della vita.

Un libertino, un concreto, un pensatore, un positivo, un monarca, un imprenditore, un letterato: e al dunque un personaggio fenomenale. Del grande giornalista non metterebbe nemmeno conto di parlare, talmente gigantesca è stata la sua impresa dall’Espresso al miracolo di Repubblica, un oggetto di carta che noi, giovani studentelli di liceo, acquistammo quel 14 gennaio 1976 avendo subito la percezione persino tattile che fosse qualcosa di bello per davvero e consono ai tempi nuovi che venivano: «Incarico a Moro», era il titolo, con sopra il richiamo all’intervista di Scalfari a Francesco De Martino, segretario del Psi: «Carte in tavola, compagno Berlinguer».

«Sono 50 anni che leggiamo opuscoli…», dice annoiato un personaggio di Cechov: così come sono 50 anni, o giù di lì, che leggiamo Repubblica, le vite degli italiani, anche le più anonime, ne sono segnate. Perché come tutti sanno Repubblica è stata, nei decenni di direzione scalfariana, molto più di un giornale, non arriviamo a dire un codice morale ma certamente uno strumento interpretativo della realtà – e come tale, di parte – fino ad acquisire, rivendicandolo, il ruolo di giornale-partito: fu Repubblica l’avversario più muscolare di Bettino Craxi prima e di Silvio Berlusconi poi così come fu Scalfari, peraltro non senza inciampi e contraddizioni, il cantore della cometa progressista Berlinguer-Ulivo-Partito democratico, senza dimenticare gli innamoramenti un po’ estemporanei per i cattolici Ciriaco De Mita e Mario Segni, lui laicissimo pannunziano-lamalfiano.

Cosa cercasse, Scalfari, nel tramestìo della politica italiana è chiaro e non è chiaro, come se alla costante perorazione del buon governo egli associasse sempre un’insoddisfazione di fondo che, ci azzardiamo a dire, è tipico dello scetticismo razionale che egli tanto amava, a partire da Montaigne, forse la figura che intellettualmente più sentiva vicina («Il mondo non è che una continua altalena (…) Non descrivo l’essere, descrivo il passaggio»).

Fu dunque un uomo di battaglia, in fondo si sentiva lui un politico che fa e disfa, e di speculazione insieme – sono i due corni del giornalismo di prim’ordine – e come “politico” fu anche duro, severo, pronto se non a tutto senz’altro a molto e la lista dei compromessi non è corta specie quando si trattava di affari, e certo Repubblica è stata per lui anche un grande affare.

Un uomo di sinistra? Certo. Il sogno suo fu di occidentalizzare il comunismo italiano, andare oltre Togliatti e anche quel Berlinguer che pure stimava più di tutti, ma non fu mai “anticomunista” nel senso di Ernesto Rossi, Mario Pannunzio, Marco Pannella o, per restare nel mondo di Repubblica, Giorgio Bocca, piuttosto era convinto come Ugo La Malfa che senza il Pci l’Italia non sarebbe mai diventata un Paese moderno, certo un Pci che avesse superato se stesso: l’Ulivo, certo, andava bene per battere Berlusconi ma il vero sbocco dell’evoluzione dei comunisti era per lui il Partito democratico, diciamo così, “prima maniera”: negli anni successivi crebbe in lui quella certa disillusione per le cose terrene e dunque per la politica che lo condusse a riflettere prevalentemente sulla filosofia, la morale, la storia, fino a sfiorare il mistero del divino, l’incontro spirituale oltre che fisico con Papa Francesco ne fu il simbolo e lo stimolo.

A quel punto – ma già da anni era iniziata una fase nuova – Scalfari si abbandonò alla ricerca. Nel 1995 uscì un libretto filosofico dal titolo allusivamente proustiano – amava Proust – “Alla ricerca della morale perduta” che è un lungo dialogo immaginario tra lui e Voltaire. A un certo punto Scalfari chiede al grande filosofo se vi sia un nesso tra la morale e la morte: «Sapete – gli dice Voltaire – non si entra nella storia facendo una passeggiata. Ci vuole una intera vita spesa per quello scopo. Di solito ci si entra producendo opere. Opere, capite? Che restino dopo di voi». Domanda Scalfari: «Che genere di opere, signor de Voltaire?». E quello: «Via, non giocate a fare l’ingenuo: opere che restino, poesia, arte, politica, scienza, azioni che la gente ricordi per la propria grandezza, opere comunque destinate ad altri e normalmente al bene degli altri». «Ebbene?». «Ebbene, amico mio, questa è la morale. Il suo nesso con la morte è evidente».

Qui forse sta la radice del narcisismo, termine da lui stesso usato per definire se stesso, ma d’altra parte una personalità eccezionale che sa di esserlo si specchia, si ammira, ma alla fine spunta quella “ruga sulla fronte” (è il titolo del suo unico romanzo) che indica non solo lo scorrere del tempo ma l’insondabilità della vita: l’”esattezza” di cui scrisse l’amico di scuola Italo Calvino non gli era chiara. Ma ecco che adesso, spenta per sempre la luce, Eugenio Scalfari giunto al cospetto di Voltaire potrà dirgli che l’obiettivo lo ha raggiunto, che la sua opera resterà, come egli d’altronde sapeva benissimo, fino alla fine dei suoi lunghi giorni ha avuto la consapevolezza di aver superato il Tempo: ed è un bel modo di morire, per uno come lui.

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