I primi interventi di Giuseppe Conte in questo inizio di campagna elettorale hanno fatto finalmente giustizia di molti equivoci. Chiunque abbia visto anche solo cinque minuti della sua intervista di mercoledì sera su La7, ad esempio, non può non avere colto immediatamente quale fosse il suo principale obiettivo polemico: Mario Draghi, il suo governo e soprattutto il trattamento da lui riservato, con parole e azioni, ai provvedimenti ereditati dal governo precedente, guidato da Conte, a cominciare dal famigerato super Bonus.
Non è solo questione di tattica o di posizionamento elettorale. Dal punto di vista di Conte, non c’è solo l’ovvia necessità di giustificare la scelta di far cadere l’esecutivo (sempre più blandamente negata e sempre più vivacemente, ancorché indirettamente, rivendicata). Parole, toni, espressione del viso: tutto in lui mostra chiaramente che non si tratta solo di calcoli e convenienze, ma anche e forse soprattutto di principi e di identità, oltre che di sentimenti e ovviamente pure di risentimenti.
In questa posizione politica e in questo atteggiamento psicologico non c’è nulla di sorprendente e tanto meno di illogico, beninteso, se non per i fessi che si erano bevuti la favola della conversione liberaldemocratica del populismo grillino e della trasformazione di Conte in punto di riferimento dei progressisti. Il tentativo di spacciare il governo Draghi per la naturale continuazione del governo Conte – alimentata, con diversi moventi, tanto dal Pd quanto, almeno in una prima fase, da alcuni sostenitori di Conte – non poteva reggere a lungo, e infatti ha retto pochissimo, essendo in verità l’uno l’esatto opposto dell’altro, come lo stesso Draghi ha reso evidente nel discorso della fiducia.
Nella sua intervista di ieri al Corriere della Sera, lo stesso Goffredo Bettini si è lasciato sfuggire un’osservazione su cui avrebbe dovuto forse ragionare più a lungo, quando ha detto di non essere riuscito a convincere Conte a sostenere l’esecutivo perché ormai il leader dei Cinquestelle «si era convinto che il M5s, continuando a stare nel governo Draghi, sarebbe pressoché sparito». Convinzione più che fondata.
È esattamente il motivo per cui da tre anni, su queste pagine, ripetiamo che la linea bettiniana dell’alleanza strategica con i grillini avrebbe portato il Pd in un vicolo cieco, perché quella è la loro natura e non è mai cambiata: un partito populista capace di far cadere un governo per fermare il termovalorizzatore di Roma, città sepolta dai rifiuti, e per impedire la costruzione di rigassificatori, tanto più essenziali nel pieno di una crisi energetica. Per non parlare delle sue spregiudicate giravolte sulla politica internazionale. Il fatto che nonostante tutto questo Bettini insista nel dire che dopo il voto il rapporto con i grillini potrebbe essere ripreso dimostra che anche qui non si tratta di tattica o convenienza, ma di un’affinità elettiva.
Aggiungo una facile previsione: proprio come nel 2018, anche nel prossimo Parlamento, quando si tratterà di scegliere le cariche istituzionali e le autorità di garanzia, i Cinquestelle saranno i primi a fare asse con il centrodestra (a meno che non siano battuti sul tempo da Luigi Di Maio e dai suoi pochi seguaci di Impegno civico, s’intende), riconfigurando così quella maggioranza costituzionale populista che già cinque anni fa ci fece intravedere lo scivolamento dell’Italia verso la democrazia illiberale di tipo ungherese.
Continuo a pensare, checché ne dica Carlo Calenda, che allora fu giusto tentare di mettere un cuneo nella tenaglia del bipopulismo. Solo che il tempo così guadagnato avrebbe dovuto essere impiegato per mettere in sicurezza il sistema sul piano istituzionale (con una legge elettorale proporzionale) e per combatterlo, il populismo, sul piano politico e culturale, anziché corteggiarlo. Si è fatto l’esatto contrario e adesso toccherà pagare il conto.