La palla al piedeChissà se il Pd si è accorto che Di Maio non conta nulla, non porta voti e non è neanche riconoscente

Nessuno sa il nome del suo partito. I sondaggi lo danno sotto l’1 per cento, per cui rischia di non contribuire alla coalizione. L’attuale ministro degli Esteri è il classico inconveniente delle alleanze fragili

di Shane Rounce, da Unsplash

Confessiamo qui un nostro piccolo problema: non ricordiamo mai il nome del partitino di Luigi Di Maio. Controlliamo: si chiama “Impegno civico”. È un logo molto banale che non dice niente, latamente “montiano”. Forse è anche per questa vacuità del nome che le cose non gli stanno andando bene. Secondo uno degli immancabili sondaggi di questi giorni (questo è di YouTrend), la lista del ministro degli Esteri rischia di non raggiungere l’1 per cento, una soglia sotto la quale – come impone il cervellotico Rosatellum – i voti si perdono, puf, nel cestino. Per questo l’ex capo politico del M5s rischia di essere per Letta una palla al piede, un ospite pesante come certi cugini lontani che ti piombano in casa la domenica.

Può darsi che il Ministro si riprenda da solo, come può benissimo accadere che abbia bisogno di un aiutino, con i soliti militanti emiliani del Pd invitati dal Partito a dare qualche voto a IC (che in fondo era la sigla dell’Internazionale comunista) per fargli raggiungere quota 1, come accadde nel ’96 quando per la medesima ragione tecnica quelli del Pds furono costretti a votare per “Rinnovamento italiano” di Lamberto Dini.

Sono gli inconvenienti delle alleanze fragili. E in effetti quella messa su da Enrico Letta è più che fragile, sembra fatta con lo zucchero filato: perché a parte Di Maio (che contrariamente alle previsioni della vigilia, anche nostre, rischia di prendere un bagno dal rivale Conte avvocato Giuseppe, dato in crescita per motivi ancora da appurare), nemmeno le altre tre liste dell’alleanza di Letta paiono brillare più di tanto.

Sui radicali di +Europa si è scritto parecchio e non ci sono notizie particolari da commentare, al momento il vagoncino boniniano non fa altro che restare agganciato al treno dem sperando di raggiungere quota 3 non per cento, e vedremo se ci sarà un qualche rush in autonomia; i rossoverdi sinora si sono notato per due buone candidature esterne – Ilaria Cucchi che si è subito distinta per un attacco a Matteo Renzi e Aboubakar Soumahoro – e poi per una stramba campagna contro i jet, uno dei grandi problemi del Paese e dell’Occidente, mentre si attende il ritorno di Angelo Bonelli dai festeggiamenti per il suo matrimonio per annotare qualche insulto a Carlo Calenda; quanto a Articolo Uno, loro sono stati i più bravi di tutti scegliendo la strada più breve, candidandosi direttamente nelle liste dem facendo dunque campagna elettorale con i soldi del Nazareno. Socialisti e Demos (Sant’Egidio), anche loro ospitati a casa Letta, sono troppo piccoli per fare notizia e dunque incommentabili.

Tutto ciò considerato, emerge con chiarezza che almeno sin qui la prova peggiore la sta fornendo il ministro degli Esteri. Il quale peraltro sembra avere una linea diversa da quella del Pd e paradossalmente molto simile a quella di Calenda e Renzi (che egli detesta): «Se il centrodestra vince, dopo appena un anno torneranno a pregare Draghi di tornare a mettere a posto quello che hanno sfasciato».

Non solo: «Noi come IC saremmo prontissimi a sostenere Draghi presidente del Consiglio». Solidarietà a quei militanti del Pd che dovessero ricevere l’indicazione di votare la lista di un ex grillino che vorrebbe Draghi e non Letta a palazzo Chigi: Di Maio, una palla al piede e pure irriconoscente.

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