La buttiamo là: se ci fosse l’elezione diretta del presidente del Consiglio Mario Draghi vincerebbe le elezioni. Persino gli elettori del Partito democratico (secondo Swg) lo preferiscono a tutti, Enrico Letta compreso.
Da tutte le parti ora lo invocano – addirittura gente che ha lavorato per scacciarlo da Palazzo Chigi – perché considerato l’unico in possesso della competenza, autorevolezza e fermezza necessarie ad una politica in grado di fronteggiare l’aumento del prezzo del gas e di conseguenza del tasso d’inflazione.
Ieri le imprese del Nord hanno lanciato un grido d’allarme drammatico sul caro-energia, mettendo in conto 40 miliardi di extra-costi legati all’emergenza: «L’impatto è devastante con il rischio di deindustrializzazione e minaccia alla sicurezza nazionale», hanno scritto i presidenti delle Confindustrie di Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto.
Rendiamoci conto delle parole: «Minaccia alla sicurezza nazionale». Coldiretti, per fare un altro esempio, prevede per l’inverno «uno tsunami» sui prezzi dei beni alimentari, mentre tutta l’Europa, da Ursula von der Leyen a Emmanuel Macron a Olaf Scholz mettono in cantiere misure eccezionali per la riduzione del consumi di energia: dunque lo spartito è di nuovo – dopo la pandemia – da unità nazionale: e chi se non Mario Draghi potrebbe esserne il direttore d’orchestra?
La realtà dunque sta facendo a botte con i sogni lettiani e meloniani di un bipolarismo che non corrisponde all’interesse nazionale, perché è molto difficile che, da soli, la raccogliticcia coalizione messa su dal segretario del Partito democratico o una destra estremista, isolazionista e digiuna di know how di governo avrebbero la forza di tenere la rotta nella bufera che ci aspetta.
Ecco perché, naturalmente anche con una buona dose di malizia (Matteo Salvini per dar fastidio alla leader di Fratelli d’Italia, altro che l’abbraccio di Messina), il fantasma del presidente del Consiglio viene continuamente evocato e si aggira nella campagna elettorale pur senza proferire parola ma con una forza di fatto che nessuno può ignorare.
Senza proferire parola? Un momento: se rileggiamo oggi lo splendido discorso del presidente del Consiglio a Rimini ci rendiamo meglio conto che non si trattò di un commiato, di un addio o, come hanno scritto in diversi, di una specie di passaggio di consegne alla Meloni, per cui – lo ha scritto il pur lucidissimo Rino Formica – egli si sarebbe addirittura messo addosso i panni del Lord protettore. Ma quando mai.
Al contrario, la pacata e profonda riflessione riminese suona oggettivamente come un fantastico promemoria per chi eventualmente dovesse sbarcare a palazzo Chigi dopo di lui, ma facendo così sorgere una domanda molto semplice: chi meglio di Draghi potrebbe fare le cose che Draghi ha detto?
Sulla scorta di una banale lettura della realtà quindi sta diventando senso comune che la vera disfida elettorale sia tra SuperMario e la Meloni (per questo Letta, che in fondo lo sa, non si candida esplicitamente a Palazzo Chigi), e a favore del primo, oltre ovviamente a Carlo Calenda che è il solo che può vantare questo asso nella manica, potrebbero schierarsi dopo il voto Matteo Salvini e Silvio Berlusconi attraverso una non semplice manovra politico-parlamentare nella quale potrebbe rientrare, un po’ trafelato, anche il Partito democratico, ovviamente tagliando fuori Giorgia.
Inutile sottolineare come tutto questo corrisponda al desiderio di Bruxelles e delle forze antisovraniste europee e verosimilmente di Washington.
Si controbatte: ma Draghi non c’è, non è disponibile. A parte che nessuno è autorizzato a parlare in suo nome, in sede di pura analisi va sottolineato che in politica esiste una forza delle cose che trascende le agende personali: basti l’esempio di Sergio Mattarella eletto per la seconda volta al Quirinale contro i suoi progetti di vita. Perché la crisi lavora per Draghi. E Draghi potrebbe essere chiamato a lavorare contro la crisi. È questo il fatto nuovo, concreto, della campagna elettorale.