Clima in bilicoPer il bene del pianeta dobbiamo aver cura delle megaforeste

Come spiegano John Reid e il biologo Thomas Lovejoy in “Sempre verdi” (Einaudi) serve un modello economico che sappia mantenere la crescita e, al tempo stesso, preservare la natura anziché cancellarla. Non farlo significa correre un grande rischio

Per mettere in salvo le megaforeste che contrastano il riscaldamento del pianeta serve un’economia che supporti la natura invece di cancellarla. Ciò non equivarrebbe a una recessione dell’economia, ma anzi a una sua crescita. Come ha detto nel 2021 Partha Dasgupta in una delle 606 pagine del suo rapporto al governo britannico sull’economia della biodiversità: «Affermare che esiste da una parte un’argomentazione economica e dall’altra un’argomentazione ambientale equivale a fraintendere la natura dell’economia».

Con il termine economia si intende la somma di tutte le nostre interazioni con gli altri e con il mondo materiale (foreste incluse) al fine di ottenere beni e servizi nella nostra ricerca del benessere. In un’economia di mercato queste interazioni sono relativamente libere: la gente compra e vende a piacere dagli altri e prende ciò che vuole dalla natura. Quasi tutte le comunità applicano regole per vietare o scoraggiare determinate attività di mercato come la prostituzione, l’usura e la vendita di sostanze che creano forte dipendenza, oppure prodotti fraudolenti o pericolosi.

Eppure noi operiamo tuttora all’interno di economie che per lo più spezzettano le foreste finché non sono troppo piccole per perdercisi dentro. I nostri mercati consentono di commercializzare porzioni di foreste, senza preoccuparsi troppo dell’integrità dei sistemi naturali più grandi che rendono possibili le parti. Una delle sfide principali, se vogliamo che il nostro futuro contempli le megaforeste, è cambiare tutto questo. Altrimenti, non è difficile prevedere i risultati: le grandi foreste saranno smantellate, come succede da sempre proprio per le stesse dinamiche economiche in atto oggi.

Poco più di duemila anni fa, Giulio Cesare si stupiva della vastità di una foresta che stava conquistando: «Non c’è nessuno di questa parte […] della Germania che dica o di esserne giunto all’estremità […] o sappia da che punto comincia». Si trattava dell’Ercinia, che secondo le stime di Cesare stesso e di Plinio il Vecchio si estendeva per sessanta giorni di marcia da est a ovest e per nove giorni da sud a nord. La selva cominciava a ovest sul Reno e proseguiva nell’Europa orientale moderna abbracciando tutta l’attuale Foresta Nera e oltre. Questa era la copertura forestale rimasta intatta ai tempi di Cesare, dopo 4000 anni di agricoltura e allevamenti alle latitudini centrali dell’Europa.

Lì i Romani si imbatterono in popolazioni di foresta che ammirarono per la loro sintonia con quell’ambiente. Malgrado l’ammirazione, nei primi secoli dell’era volgare Roma avanzò nei boschi erciniani e nelle foreste minori degli odierni Francia, Belgio, Gran Bretagna, Spagna e Cipro. Gli alberi venivano quasi sempre bruciati: servivano a fondere l’argento nell’Iberia, il rame a Cipro e il ferro in Francia, Germania e Inghilterra. Il legno riscaldava i bagni e le saune romane, che presero piede nel i secolo, e alimentava forni da ceramica, da calce e fornaci per la soffiatura del vetro. Per un certo periodo, grazie al legno i Romani ebbero piatti, vasi, splendidi stucchi, finestre smaltate e ammolli rilassanti. Era troppo bello per durare.

È possibile che l’esaurimento degli alberi spagnoli sia stato l’inizio della fine per Roma. La fusione dell’argento avveniva in Spagna, e serviva a coniare monete con i profili sempre diversi dei vari pezzi grossi romani. I regnanti stavano trasformando gli alberi in denaro, ma gli alberi finirono prima dei giacimenti. Mentre gli imperatori miscelavano quantità sempre maggiori di metalli non preziosi nelle loro monete di argento, sia la valuta sia l’autorità romana crollarono. All’inizio del IV secolo molti Romani preferivano ormai ritornare al baratto piuttosto che affidarsi a un sistema monetario traballante.

Le foreste dell’Europa centrale rimboschirono in misura modesta dopo la caduta di Roma, durante un periodo di migrazioni, eserciti erranti e popolazioni rurali ridotte. Attorno all’850 tuttavia il pendolo della deforestazione tornò a oscillare in direzione opposta e i grands défrichements medievali, i “grandi dissodamenti”, ridussero di un quarto o più l’estensione delle foreste. Entro il 1500 la copertura alle latitudini temperate europee raggiunse l’attuale 40-45 per cento. Oggi il continente è privo di paesaggi forestali intatti se si escludono la Russia e la Scandinavia settentrionale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

da Sempre verdi. Salvare le grandi foreste per salvare il pianeta,  di John Reid e Thomas Lovejoy, Einaudi, 300 pagine, 30 euro

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