In questa frettolosa quanto improvvisata campagna elettorale, una particolare attenzione mediatica è stata riservata al Meeting di Rimini. Si è posto l’accento sui giovani, che sono la speranza e il futuro. La solita solfa. Gustose (si fa per dire) articolesse su applausometri, minutaggio quando parla la donna premier in pectore, quando il suo presunto diretto competitor Dem, che disperatamente vuole vestire di rosso e di nero la competizione elettorale.
Ma l’Agcom fa fallire a Sandra e Raimondo il duetto taglia-terzo polo da Vespa. Poi arriva Draghi e si apre il sipario. Mette (anche lui disperatamente) la mano sui prossimi governanti perché comunque l’Italia ce la farà; e consente a Giorgia Meloni di dire che tutta la narrazione catastrofista della sinistra sulla destra al governo è stata smentita dal loro eroe. Facendo finta di non sentire però quando l’eroe sostiene che c’è un’unica strada per stare in questo turbolento mondo e in questa Europa piena di interessi diversi: rimanere ancorati alla sua impostazione di politica economica ed estera. Isolarsi e pensare in modo sovranista non è patriottico (anche tenerci Ita fa parte di questa corrente di pensiero), perché alla fine non fai veramente gli interessi del tuo Paese. Lo danneggi, anche quando pensi di ricontrattare il Pnrr oltre certi limiti, come ha avvertito, sempre a Rimini, il commissario Paolo Gentiloni.
Lui, il premier per gli affari correnti, darà una mano perfino a Meloni, che a quanto pare lo consulta. I narratori dei retroscena scrivono che gli chiederà perfino di indicarle il titolare del Tesoro, dell’Economia. Che le serve per accreditarsi in Europa e nel mondo Atlantico. Che sia vero o meno è importante, lo sono ancora di più le controindicazioni che questo implica.
Voglio dire, se fosse vero che Meloni si vuole assicurare una certa continuità su alcuni temi, e la benevolenza di certi ambienti anche finanziari che potrebbero disfarsi con un click del 25 percento dei nostri titoli di Stato, allora forse non avrebbe dovuto candidare Giulio Tremonti. Il quale non perde occasione per far notare che il price cap europeo sul gas è una scemenza, che la globalizzazione e le privatizzazioni pensate negli Novanta e Duemila, sono state nefaste, fatte con lo zampino di Draghi, che lo stesso Draghi nella sua ultima relazione da governatore italiano aveva emesso una buona valutazione sulla gestione dalla finanza pubblica di Tremonti (Berlusconi). Tranne che poi il banchiere cattivone, trasferitosi a Francoforte, scrive con il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Trichet la lettera-pizzino al governo di Roma, accusandolo di default, di tutti i mali del mondo e dello spread che galoppava vero i 600 punti. Come se non fosse vero.
Insomma, il candidato eccellente Tremonti, che dovrebbe luccicare nelle liste e nel futuro gruppo parlamentare di Fratelli d’Italia, farà tappezzeria tra i damaschi e gli scricchiolii del parquet senatorio, e dovrebbe stare zitto e buono perché potrebbe intralciare il lavoro del manovratore di Palazzo Chigi. Meloni, se sarà lei, dovrebbe, su suggerimento di Tremonti, azzerare totalmente ogni tassa sulle bollette e chiedere a Bruxelles di non calcolare a debito la mancata entrata all’Erario. Una bella battaglia europea, auguri!
Ma intanto applausi al Meeting, applausi per tutti, soprattutto per coloro che odorano non di santità ma di potere. Del resto è sempre stato così, da quando io ricordi, dalla prima volta che ci andai per seguire Giulio Andreotti (preistoria politica) e poi con Berlusconi, qualunque cosa facesse e dicesse (pure le bestemmie) sotto l’ala protettiva del cardinal Ruini e di un papato conservatore. Ricordo i tiepidi applausi al cattolicesimo adulto Prodi, gli osanna nell’alto dei cieli per il leghista con il crocifisso, e il cattolico Giuseppe Conte. Ricordo pure che in sala stampa fu coniato il termine Comunione e fatturazione. Ma sono vecchie storie, i giovani di allora sono uomini o signori maturi, ma gli applausi sempre gli stessi; ora la sorpresa e lo sgomento di aver perso Draghi per mano di coloro che applaudono, spellandosi le mani, tutti in piedi.
Sono gli italiani che scordano in fretta. Quelli più in generale che prendono il reddito di cittadinanza e non vedono l’ora di votare quelli che glielo toglieranno, per poi dire eh no, ma non dovevate abbassare le tasse e buttare a mare i migranti?
È quello che Dario Di Vico sul Corriere chiama l’Italia dell’ossimoro, ricordando un altro editoriale acuto di Giovanni Orsina sulla Stampa in cui parla degli italiani alla continua ricerca di un prodotto politico sempre Nuovo, dopo avere bruciato nell’arco di pochi anni Berlusconi, Grillo, Renzi, Salvini.
Meloni dice di avere imparato di più facendo la cameriera che in Parlamento, allora dovrebbe sapere di che pasta è fatta l’antropologa politica italica. Comunque se c’è una cosa che dovrebbe tenere in conto sono le parole messe poco in evidenza di Draghi. Non solo il riferimento a non isolarsi e non ascoltare le sirene di Salvini e degli spacca bilanci pubblici. Ma di ritrovare dopo il 25 settembre lo spirito di coesione nazionale, tenere saldo lo spirito repubblicano e gli ideali europei.
Noi speriamo di ritrovare lui, ma gli ossimori appunto sono il dna civico. Comunque, spirito repubblicano e ideali europei non sono chiacchiere e distintivo buone per politologi perditempo e radical chic inconcludenti. Sono parole che vanno decrittate da buoni intenditori di cose pubbliche. È ciò cui tiene di più l’unico della vecchia guardia che rimarrà in servizio permanente per sette anni a scrutare le mosse della persona cui darà l’incarico di formare il governo se il voto popolare lo vorrà. Un signore che si chiama Sergio Mattarella. Poi Draghi ai giardinetti?