La parodia della guerra civilePer risparmiare tempo, Meloni sta già lavorando alla sua caduta

Di fronte alla possibilità che i vincitori abbiano i numeri per cambiare da soli la Costituzione, la parola d’ordine del presidenzialismo conferma tutti i peggiori timori circa le loro intenzioni. Ma è fondata la speranza che finisca come tutti i tentativi precedenti

301+ Kim, Unsplash

Un amico che abita lontano e che di conseguenza vedo solo di tanto in tanto, ogni volta che c’incontriamo, da inguaribile estimatore di Matteo Renzi, mi fa sempre la stessa domanda: «Mi spieghi come si fa a passare in pochi anni dal 40 al 2 per cento?». La prossima volta che ci vedremo gli risponderò: guarda Giorgia Meloni.

So bene che la leader di Fratelli d’Italia al 40 per cento deve ancora arrivarci, e finora è accreditata dai sondaggi al massimo del 24. Personalmente, credo che alle elezioni prenderà assai più di quanto oggi le attribuiscono – mi auguro comunque meno del 40 per cento, temo più del 30 – ma quello che mi colpisce è come sia già attivamente impegnata, prima ancora di avere assaggiato il trionfo, a prepararsi la repentina caduta, lungo la stessa strada percorsa da Renzi, e da molti altri prima di lui (praticamente tutti, ciascuno a suo modo).

La politica italiana è una giostra che corre sempre più velocemente, e questa è in effetti l’unica cosa che cambia: il ritmo con cui i protagonisti vengono sbalzati fuori. Per il resto, nonostante il gioco si ripeta identico a se stesso da trent’anni a questa parte, nessuno sembra imparare mai niente.

Prendete l’ultima assurda polemica intorno alla possibile nomina di Meloni a presidente del Consiglio. La leader di Fratelli d’Italia, dichiarando che Sergio Mattarella all’indomani di una vittoria del centrodestra non potrebbe fare altro che darle l’incarico, ha commesso una gaffe, per usare un eufemismo, che vale come tre autogol: il primo perché, rilanciando con tanta forza quella che dovrebbe essere un’ovvietà, ha dato l’impressione che non lo sia; il secondo perché ha offerto l’occasione a Matteo Salvini di precisare in punta di diritto costituzionale – ed è tutto dire – che automatismi non ve ne sono, contribuendo quindi a diffondere l’idea che il centrodestra non sarebbe affatto unito su Meloni, anche qualora il suo partito fosse il più votato della coalizione; il terzo perché, così facendo, rafforza e dà credibilità alla campagna degli avversari sui suoi principali punti deboli: legittimazione e affidabilità democratica.

Tutto questo non avrebbe però un decimo del peso che ha assunto, e che soprattutto assumerà all’indomani del voto, se l’aspirante presidente non avesse deciso di rilanciare come principale punto del suo programma l’elezione diretta del capo dello Stato. In una campagna elettorale già segnata dal pericolo di un gravissimo squilibrio istituzionale, determinato dal taglio populista dei parlamentari, dalla legge maggioritaria e dalla oggettiva sproporzione tra le forze in campo, il buon senso avrebbe dovuto suggerirle di puntare anzitutto a rassicurare. Di fronte alla concreta possibilità che i vincitori abbiano i numeri per cambiare da soli la Costituzione senza passare dal referendum, la parola d’ordine del presidenzialismo conferma invece tutti i peggiori timori circa la loro volontà di fare cappotto, sul modello dell’Ungheria di Viktor Orbán. Timori ulteriormente rafforzati dalla puntuale dichiarazione di Silvio Berlusconi – un’altra “gaffe” assai significativa – sulla necessità di sloggiare Mattarella dal Quirinale un minuto dopo la riforma.

Intendiamoci, non penso che tutto questo sarà sufficiente a cambiare l’esito delle elezioni. Penso però che dal giorno dopo assisteremo alla centesima replica dello scontro sulle riforme istituzionali, magari dopo qualche inutile giro di valzer in cui i sostenitori dell’elezione diretta del presidente della Repubblica dialogheranno con i fautori dell’elezione diretta del presidente del Consiglio (come Renzi) e naturalmente con gli ineffabili riformisti del Pd. I quali, dopo aver chiesto il voto per non consegnare l’Italia a Putin, spiegheranno che anche Putin deve poter governare cinque anni e attuare il suo programma, e rilanceranno l’ennesima bicamerale (Filippo Andreatta, intellettuale vicinissimo a Enrico Letta, lo ha fatto sul serio, in diverse recenti interviste, sul Corriere della Sera e sul Foglio).

Insomma, gli anni passano, si avvicendano i governi e le generazioni, ma l’eletta schiera dei sostenitori della “rivoluzione maggioritaria” continua a dettare legge. Una specie di gigantesco e trasversale comitato tecnico-istituzionale che da trent’anni filati prescrive le stesse medicine, incurante del fatto che fino a oggi le sue cure abbiano prodotto risultati sempre peggiori e del tutto opposti agli obiettivi dichiarati, dall’instabilità dei governi alla frammentazione dei partiti, per non parlare della qualità e della rappresentatività di dirigenti ed eletti.

Eppure, chissà perché, non c’è leader in odore di vittoria che non si innamori delle loro ricette e non corra a comprare i loro elisir. E a noi resta solo da augurarci che anche questa volta finisca come tutte le precedenti, cioè male, con l’ennesima paralizzante parodia di guerra civile che non approda a nulla, e non peggio.

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