La saletta del Caffè si era riempita, ma lei si faceva attendere. Perfino il poeta D’Annunzio, così ombroso e sgarbato, era arrivato puntuale. Accennando qualche sorriso a denti stretti, sprofondò in poltrona. Dal taschino del doppiopetto di velluto spuntava vezzosa una gardenia. Nell’aria c’era odore di buon tabacco, misto a un lieve sentore di profumo muschiato. Francesco Paolo Michetti e Pietro Mascagni conversavano con Roberto Bracco e Francesco Paolo Tosti.Tacquero all’ingresso di Isadora Duncan, al braccio dello scultore Romano Romanelli. Il mondo non parlava che di lei, della sua bellezza e della sua sensualità, sul palco come nella vita. Era una donna emancipata, libera, capace di eccessi e stranezze, una creatura misteriosa e irresistibile perfino per D’Annunzio. Romanelli stava lavorando al busto del Vate, e spesso provavano nel suo studio di Borgo San Frediano a Firenze.
Isadora era sempre lì, con gli occhi di D’Annunzio puntati sul suo seno. Avanzò nel corridoio del Caffè a passo di danza, leggera come una libellula. Gli uomini sedettero a cerchio intorno al poeta, come i cavalieri della Tavola Rotonda. Romanelli era Lancillotto, e Michetti mago Merlino. Si diceva che D’Annunzio andasse a chiedere rimedio a lui, quando entrava in una crisi d’amore. Il che accadeva di frequente.Francesca fece il suo ingresso di lì a poco. Avanzò altera verso Peroni, ma nessuno le rivolse lo sguardo. Furono attimi di tortura. L’indifferenza di quelle signore aristocratiche, che sfoggiavano gioielli, abiti sontuosi e predicati altisonanti, le corrodeva le viscere. Marchesa di… Baronessa del… Erano pietre in pancia, una dopo l’altra. Dure come la sua rabbia. Che umiliazione dover mendicare un sorriso, uno sguardo, un brandello di conversazione! Si sentiva invisibile, esclusa, come agli inizi.
La Signorina Nessuno tornava a perseguitarla. «Che sono venuta a fare?», mormorò. «Francesca Bertini?». Una donna le si avvicinò per salutarla; la scrutava da femmina, con occhi beffardi, sventolando teatralmente un ventaglio. Era bellissima e lo sapeva. «Sono Maria Jacobini». Francesca la conosceva di nome. Era un’attrice come lei, ma nata assai più in alto. Cercò di accattivarsela citando il capocomico della sua compagnia teatrale, Cesare Dondini Jr. L’altra quasi le voltò le spalle, per vezzeggiarsi con Bracco. Non c’era da meravigliarsi, visto che bastava una sua parola per decretare il destino di un artista. Pochi anni prima le sue picconate alla carriera di Scarpetta, colpevole di aver messo in scena un’esilarante parodia di La figlia di Iorio, avevano fatto il giro d’Italia. «Come osa trascinarmi in tribunale, quel pazzo esaltato? I fratelli Goncourt hanno ragione! È un bieco utilisateur!». Francesca sentiva ancora le urla di Scarpetta, mentre vagava inquieto tra le stanze del palazzo. Aveva chiesto aiuto alla Serao, ma lei, integerrima, si rifiutava di censurare la penna di Bracco o di chiunque altro.
Nella querelle, quell’esaltato di D’Annunzio si era enormemente divertito. Se ne faceva addirittura un vanto, quando lo intervistavano, alzando il sopracciglio in segno di profonda soddisfazione. Nessuno diede peso all’epilogo, tranne il povero Scarpetta – che vinse da sconfitto. Francesca si sentì vacillare, sola in mezzo alla sala, senza appigli, al centro di niente. L’abito di seta grigioperla le scivolava addosso rendendola eterea, ma le gambe non reggevano: scappò in bagno e, china sopra il gabinetto, vomitò ansia e bava. Gli schizzi acidi le inzaccherarono il vestito. Non poteva perdere il controllo! Rapidamente lo sfilò, arrotolando la bretella, e le macchie sparirono tra le pieghe di seta. Rientrata in sala, si ritrovò al cospetto di un plotone d’esecuzione. Le parve di sentire il comandante che gridava: «A morte!». E si vide esangue a terra, tra volti noncuranti e spietati. Uno spasmo le piegò il ventre, mentre Giacomo Peroni le prendeva le mani spingendola verso D’Annunzio. «Maestro, vi presento Francesca Bertini. Di lei sentirete parlare, e molto. È un’attrice del cinematografo, bravissima!».
Il Vate stava scrivendo (non da solo) la sceneggiatura di Cabiria, che si annunciava come il film più costoso della storia. Tecniche di ripresa innovative e allestimenti faraonici, al servizio di una storia popolare. «Cabiria traghetterà il cinema in una dimensione moderna», sentenziò D’Annunzio, muovendo gli occhi in cerca di sguardi adoranti. «Non a caso porterà la mia firma!». Francesca confessò di aver letto Il piacere due volte e di conoscerlo quasi tutto a memoria.E realizzò d’essersi cacciata in un guaio. Il Vate le chiese subito di interpretarne un brano: «Al centro della sala, signorina», tuonò. Come un piccione già spacciato prima di una gara di tiro, lei chiuse gli occhi e iniziò a recitare: «Che strano amore!», diceva Elena, ricordando i primissimi giorni, il suo male, la rapida dedizione. «Mi sarei data a te la sera stessa ch’io ti vidi». Il silenzio riempì la sala, finché un applauso non ruppe la magia. Aveva toccato le corde giuste, solleticando la vanità del poeta. «Cosa ne direste se vi offrissi un ruolo da protagonista nel Folchetto di Narbonne, sceneggiato da mio figlio Gabriellino?». Dal fondo del tavolo, la bella Jacobini lanciò un grido di esortazione: «Il sommo D’Annunzio ti ha riservato un grande onore!». E poi, guardandolo di sottecchi, aggiunse: «Come si può dire di no a un uomo come lui?».
“L’ultima diva”, Flaminia Marinaro, Fazi Editore, 192 pagine, 18 euro