Indignazione preventivaL’assoluzione di Francesco Bellomo è un’eccezione nell’era della suscettibilità

L’ex magistrato, radiato dal suo ordine per accuse di presunte violenze sulle donne, è stato giudicato innocente. Questa vicenda giudiziaria richiede una riflessione su come vengono condotti e definiti un certo tipo di processi

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Chissà se, come per il trionfo elettorale di Giorgia Meloni, per la condizione femminile l’incredibile vicenda giudiziaria di Francesco Bellomo servirà a infrangere un altro seppur meno scintillante tetto di cristallo: quello del pregiudizio giudiziario nei confronti degli uomini imputati di violenza sulle donne.

Ieri Bellomo è stato definitivamente assolto dopo quattro diversi processi celebrati ai quattro angoli del Paese da una serie di accuse infamanti provenienti da giovani sue allieve.

La vicenda dell’ex magistrato, radiato dal suo ordine con un provvedimento di insolita durezza, sino a oggi utilizzato in pochissimi casi, come quello di Luca Palamara, servirà a una riflessione necessaria sulle modalità con cui vengono condotti e soprattutto definiti un certo tipo di processi.

Dal caso Bellomo a quello di Ciro Grillo, per finire alla vicenda ancora in fieri del politico Matteo Richetti, per gli indagati/imputati/sospettati di condotte di reati come lo stalking e le violenze contro le donne (termine di vasto uso che copre una enorme gamma di ipotesi dalle molestie a vere e proprie forme di coartazione, in barba al principio di determinatezza dei reati previsto dal diritto penale) grava sin dall’inizio la cappa del pregiudizio colpevolista e della condanna anticipata.

Perfino nei casi più dubbi come quello recente del senatore di Azione non manca chi con il ditino alzato ha già emesso il verdetto («qualcosa comunque ha fatto») anche di fronte a seri dubbi e precedenti sulla attendibilità della presunta vittima.

Il caso Bellomo è esemplare: è assurto alla indesiderata fama della gogna per aver gestito con singolari modalità i suoi corsi di preparazione all’esame di magistrato dove, secondo l’accusa, avrebbe coartato ai limiti del plagio la libera volontà di alcune iscritte alla sua scuola inducendole ad adottare regole di comportamento, come l’adozione di mise scollacciate e a subire le sue imposizioni durante le relazioni sentimentali allacciate con alcune di esse.

In un caso un procuratore, piuttosto immaginifico, aveva ipotizzato il reato di estorsione per avere il docente preteso da una sua allieva che rinunciasse a una prestigiosa carriera di valletta in una tv locale del barese per costringerla (ohibò) a studiare seriamente da magistrato.

Ora, questo caso è esemplare non perché il malcapitato sia un nuovo Tortora ma proprio perché le condotte di Bellomo sono censurabili sotto il profilo della buona educazione e dei canoni politicamente corretti da osservare secondo la morale corrente nei rapporti tra i sessi o di genere.

Bellomo sarà stato petulante e assillante, invadente e talvolta scostumato e svilente, ma con un non insignificante tratto comune in tutte le sue storie: l’assenza di ogni risvolto penale.

Nessuna delle sue vittime lo ha mai denunciato e si è presentata in tribunale a reclamare giustizia (e alcune di loro sono stimatissime magistrate che certamente hanno chiaro l’obbligo di fare giustizia e contribuire alla verità).

Ben 5 giudici in varie parti d’Italia hanno emesso sentenze assolutorie e di proscioglimento, senza neanche arrivare a celebrare un processo: per il semplice motivo che ciò che veniva contrabbandato per reato era solo una vicenda privata da censurare, o riprovare, magari, ma dove di penalmente rilevante non c’è mai stato nulla.

Si può pensare di archiviare tutto come un semplice incidente, un fatale inconveniente, forse spingersi alla commiserazione e chiuderla lì?

Beh, quest’uomo è stato arrestato due volte, umiliato con perquisizioni e inchieste televisive irridenti, sono stati importunati i suoi genitori, lui stesso bollato come «un gran porco» da un popolare conduttore televisivo (senza che ovviamente costui si fosse degnato di sentire la sua versione) e alla fine scacciato dall’ordine giudiziario come un reietto, laddove suoi colleghi magistrati e colpevoli di atti di violenza domestica, hanno goduto di maggiore indulgenza.

A ben pensarci questa storia ha un tratto in comune con un altro storico caso giudiziario, rievocato sugli schermi proprio in questi giorni, che aiuta a capire perché sia necessaria una riflessione e qualcosa più di frettolose scuse.

Aldo Braibanti, singolare figura di studioso scostante e prevaricatore, circa mezzo secolo fa fu processato con l’accusa di plagio, reato che non è stato contestato a Bellomo, semplicemente per il fatto che è stato nel frattempo abrogato dalla Corte costituzionale, in ragione dell’assoluta vaghezza dell’ipotesi di delitto difficile da provare perché attiene alla complessità dei rapporti umani più che ai libri di diritto.

In realtà ciò che si contestava a Braibanti, e il bel film di Amelio “Il signore delle formiche” lo spiega efficacemente, era la sua omosessualità, il vizio indicibile e inaccettabile per la società del tempo.

Oggi l’etica dominante condanna senza appello condotte e comportamenti moralmente riprovevoli ed esige che la censura si trasformi in reato esattamente come mezzo secolo fa il ruolo di Braibanti, intellettuale dominante sul giovane ammiratore suo amante, doveva essere un reato.

Qualcuno obietterà che così ragionando si rischia di abbassare l’allarme sulle violenze vere, che nascono proprie da condotte invasive anche se non criminali.

Bene, una società che non distingua il reato dal peccato e dalla morale è essa stessa pericolosa e criminogena.

Sia consentito chiedersi se sia un caso che tacciono le voci di fronte alle gravi violenze che le donne subiscono in Iran ed in Afghanistan , in nome proprio della morale la cui violazione diventa crimine.

Quando tutto si annebbia, e si perde il confine tra violenze vere e falsi crimini, è il senso di realtà che sparisce e tutto diviene indistinto e uguale, e l’indignazione, quella vera e giusta, sparisce nell’incapacità di ragionare.

L’autore è stato difensore di Francesco Bellomo

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