L’Iraq è sull’orlo di una guerra civile non già tra sunniti e sciiti, come da tradizione, ma tra partiti sciiti filo e anti iraniani, la cui posta in gioco è mantenere o cessare lo status di colonia iraniana dell’Iraq, i cui destini vengono decisi e pilotati dagli ayatollah di Teheran.
Un conflitto di tale portata che dalle elezioni dell’ottobre 2021 a oggi non è stato ancora possibile formare un nuovo governo. Negli stessi giorni continuano i raid israeliani in Siria per distruggere migliaia di missili puntati sullo stato ebraico che l’Iran ha fornito ad Hezbollah e ad altri gruppi militari. Contemporaneamente, Teheran fornisce centinaia di micidiali droni alle truppe russe per martellare le difese dell’eroico esercito ucraino. Infine, ma certo non per ultimo, il recente attentato nel cuore degli Stati Uniti a Salman Rushdie conferma una realtà incontrovertibile: l’Iran è il “motore immobile” del terrorismo internazionale e della destabilizzazione in Medio Oriente e in tutto il pianeta.
Pure, per decisione incauta di Joe Biden, tutti questi avvenimenti non hanno il minimo riflesso sulle trattative sul nucleare iraniano, denominate Jpcoa, in corso a Vienna. Trattative che ruotano rigidamente tutte e solo sul merito del programma iraniano di arricchimento dell’uranio e sulle sanzioni e che, per quanto riguarda il tema che invece dovrebbe essere centrale, cioè quello del ruolo fortissimo di destabilizzazione operato da Teheran in Medio Oriente, si limitano all’iscrizione o meno del corpo dei pasdaran nella lista americana delle organizzazioni terroriste. Elemento puramente formale e dall’impatto nullo, perché i pasdaran a migliaia e migliaia operano impunemente in paesi (Siria, Iraq, Libano, Gaza, Yemen) nei quali nulla vale la loro emarginazione da parte americana.
Joe Biden dunque ha deciso, facendo un grave errore, di non tenere in minimo conto quanto è avvenuto dopo la firma del primo accordo sul nucleare iraniano voluto da Barack Obama il 14 luglio 2015. Allora, appena siglato l’accordo e cessate le sanzioni, l’Iran, che sino a quel momento e da anni era uno Stato più che isolato e reietto dalla comunità internazionale, ha immediatamente sviluppato un poderoso intervento armato in tutto il Medio Oriente, tramite appunto i pasdaran, sotto la guida del geniale generale Qassem Suleimaini (ucciso da un drone americano il 3 gennaio 2020 a Baghdad per ordine di Donald Trump).
Nell’arco di un anno la potenza politico militare iraniana si è estesa così in Siria, nella quale ha letteralmente “salvato” il regime sull’orlo della fine di Bashar al Assad; in Yemen, dove ha scatenato la guerra civile degli Houti; in Libano; a Gaza, tramite la propaggine della Jihad Islamica, e naturalmente in Iraq, attraverso il governo del filo iraniano Nuri al Maliki.
Grazie così a quell’accordo sul nucleare, l’Iran è rapidamente diventato una solida potenza regionale nel nome della destabilizzazione armata.
Pure, durante la sua campagna elettorale, Joe Biden aveva dato segno di avere tratto la lezione dall’errore fatto da Barack Obama e da lui stesso (era il vice presidente) nel 2015 e si era detto pronto a discutere di un nuovo accordo sul nucleare – nel frattempo unilateralmente condannato da Donald Trump l’8 maggio 2018 – solo nel contesto di una più larga trattativa sulle ingerenze iraniane in Siria, Iraq, Libano, Yemen e Gaza.
Ma, una volta ripresi i colloqui a Vienna e nell’evidente tentativo di portare a casa un risultato internazionale di prestigio a qualsiasi costo per riscattare una presidenza scialba e in declino di consenso (vedi il disastroso, cruciale, abbandono dell’Afghanistan), Joe Biden ha accettato di trattare – anche su spinta di una Unione Europea più cieca che mai – solo e unicamente sull’arricchimento iraniano dell’uranio e sulle sanzioni. Inutili sono stati sinora gli allarmantissimi segnali contrari provenienti da Israele, Arabia Saudita e paesi del Golfo.
Ora, le trattative di Vienna sono ad un punto cruciale e molti segnali indicano che stanno per concludersi positivamente. Se così sarà, e sarà di nuovo il preludio per una ulteriore fase di destabilizzazione armata iraniana del Medio Oriente, l’unica speranza è che il Congresso americano non ratifichi il nuovo accordo.