Se vogliamo consolarci possiamo far finta di credere davvero che l’Italia si sia spontaneamente e con autonoma forza maggioritaria posta a difesa degli aggrediti, a difesa del diritto messo nel nulla, a difesa della verità insultata dalla menzogna, sepolta dalla censura, affogata dall’informazione ridotta a ventriloquia della propaganda in formula Zeta.
Possiamo far finta di credere davvero che nella formalità esecutiva che ci ha consorziato a Ovest si dimostri e si esaurisca la prova della nostra appartenenza, e che tutto ciò che vi si opponeva, tutto ciò che mirava a revocarla, tutto ciò che lavorava per destituirne le ispirazioni e le ragioni, fosse tutt’al più l’inevitabile ma alla fine dei conti poco determinante dettaglio di movimenti divergenti, un mugugno incapace di contaminare la nettezza di convincimenti diffusamente più forti, la sfocatura minuta e periferica nell’immagine complessivamente nitida in cui il Paese poteva riconoscersi.
Varrebbe la pena di smetterla con questo tentativo consolatorio, perché la pena cui si è esposti incaparbendovisi è molto più dura, ed è la pena che punisce un Paese che anche questa volta è irrisolto a fare i conti con sé stesso.
Vediamo di mettere i piedi nel piatto. Se al governo non ci fosse stato Mario Draghi, ma chiunque tra quelli che lo avversavano o tra quelli che, obtorto collo, hanno fatto le mostre di sostenerlo, a risuonare nelle aule legislative e nelle requisitorie di governo sarebbe stato il verbo della pace pacifista.
Solo chi prendeva fischi per fiaschi poteva credere alla genuinità di Enrico Letta in versione di intransigenza atlantista. I suoi biascicamenti tardo-primaverili (qualcuno li ricorda?) sulla pace mica tanto buona che tuttavia sarebbe stata meglio di una guerra in ogni caso cattiva, la dicevano assai bene non solo circa la piega di quel suo eloquio, ben misurata sull’esigenza di una coltivazione elettorale pericolosamente esposta alle intemperie del consenso fuggevole: la dicevano lunga, appunto, già a proposito di quel suo originario portamento inflessibile.
Non era convinzione: era convenienza. Non era il cuore oltre l’ostacolo: era il culo al caldo in una situazione che con poca spesa e abbastanza retorica garantiva la permanenza in un club contestato ma comunque esclusivo e già per ciò solo preferibile.
L’Unità europea che Letta rivendicava contro le ambizioni disgregatrici dei russi non era un obiettivo da mantenere, era la condizione provvisoria che assolveva le sue scelte apparentemente oltranziste. E non appena il clima cambiato gli consentiva di ripiegare verso predicazioni contraddittorie – un mezzo dovere della resa, per intendersi – eccolo ai suoi tipici spropositi provinciali, che in realtà non mettevano nel nulla i primi tre mesi di militanza pro-Ucraina ma ne denunciavano la strumentalità che non vedevano solo quelli che non avevano occhi per vedere. Che sono gli stessi che sviliscono a dettaglio la candidatura del pacifista comunista sindacalista ambientalista a difesa della Costituzione nata dalla Resistenza, ma quella buona, mica quella che non capisce che anche il Papa dice che bisogna dialogare.
Un contegno dopotutto simile a quello della sinistra seria e perbene teneva la presunta controparte parlamentare, il partito del diritto di non abortire garantito dal divieto di abortire, il partito della via ungherese alla democrazia, che al di là di qualche concessione protocollare all’esigenza di sostenere gli aggrediti non si rendeva protagonista di nessuna iniziativa, di nessuna pubblica dimostrazione, di nessuna autonoma azione di contrasto alla guerra scatenata in nome della pace pacifista, la guerra dei probabili manichini di Bucha, la guerra delle attrici gravate di verosimili pance finte, la guerra delle fosse comuni che vai a sapere se è vero, la guerra dei russi che puntano sui loro obiettivi e nel frattempo cercano di non spaventare la popolazione. Non era questa la guerra di cui si occupava Giorgia Meloni, ma quella per il trionfo della cruz universal.
Nulla quaestio, poi, a proposito dell’impudente cialtrone in felpa putiniana, che se poco poco il conto gli venisse buono competerebbe per l’affascinante avventura con Mister Graduidamende, lo sgherro che invita gli avversari a scendere in campo senza scorta e che sugli aiuti all’Ucraina si è esibito in sconcezze appena più disinibite rispetto a quelle che han fatto la postura magliara del capo leghista.
Era ed è un’Italia minoritaria e sostanzialmente perdente quella cui dava formalità Mario Draghi rispetto alla guerra all’Ucraina. La vera, e maggioritaria, è quest’altra