La grande paura del Pd te la comunicano tutti, dirigenti di peso come semplici militanti. L’aria non è buona. Al Nord, al Centro, al Sud. Il rischio della marea nera in questi giorni martella le tempie dei candidati dem. O meglio, dei candidati nei collegi collegi uninominali, quelli che sperano di farcela, o quelli nei listini ma in posizione difficile: tutti questi sì che «si stanno facendo il mazzo», come ci dice uno dei loro impegnato a macinare chilometri per sperare in una rielezione che pareva molto più a portata di mano. Invece è durissima. In molte zone il partito non c’è più, altrove è debole, in altre ancora è perennemente litigioso e diviso, pur senza arrivare al parossismo dell’«inginocchiati!» di frusinate memoria.
L’onda-Meloni l’avvertono salire più o meno in tutto il Paese, persino in Toscana il centrosinistra fa molta fatica, è un’onda che ai più giovani ricorda quella di Beppe Grillo, ai più grandi quella di Silvio Berlusconi. In entrambi i casi due batoste indimenticabili. Giorgia è di moda, ci si consola assistendo all’annaspare della Lega e di Forza Italia, così che in fondo all’anima si spera in un Senato ingovernabile, in una situazione che possa riaprire i giochi. Vincere pulito, al momento, è illusorio.
Enrico Letta sta dando fondo a tutte le sue risorse, arriverà al 25 settembre esausto, in questi giorni gira generosamente i distretti di un Veneto mai amico, fa tutto quello che può sui social – con risultati, diciamo così, sui quali il dibattito è aperto – forse comincia a avvertire che “gli occhi di tigre” il suo Pd non ce li ha, certamente è prigioniero della sua mistica bipolarista nella quale manca la cosa più importante, cioè la sua candidatura a palazzo Chigi. Eppure non demorde, non può.
I fortunati che sono in posizione sicura nei listini bloccati «arriveranno dopo il 5 settembre», come ci dice con amara ironia un noto candidato che lotta senza grandi speranze in un collegio difficilissimo. Il “tridente ministeriale” – Dario Franceschini, Andrea Orlando, Lorenzo Guerini – non si sente molto (ma magari è colpa dei media), sicché si avverte come una solitudine del segretario nel suo pedalare lungo gironi impossibili peggio del Tourmalet del Tour de France.
Corre, Letta, all’inseguimento di una destra che secondo tutti i sondaggi ha messo il turbo mentre l’alleanza del Pd sembra una vecchia 127 zavorrata da compagni di strada che di voti ne portano pochini (a stare a un sondaggio di Antonio Noto né i rossoverdi né +Europa né tantomeno Di Maio raggiungerebbero il 3%). La grande paura, che già anticipa l’autocoscienza e l’eterno dibbbattito del dopo-sconfitta, è che dal 26 si apra nel partito l’ennesima resa dei conti con un tutti contro tutti o forse meglio con un tutti contro Letta. Che verrà accusato dalla sinistra di aver rotto con Giuseppe Conte e di non aver saputo parlare ai piū deboli, e al tempo stesso dai riformisti di non aver saputo costruire una piattaforma draghiana buona anche per Carlo Calenda.
Com’è ovvio, la grande paura viene di notte, a giornata finita. Per ora si combatte, si spera che la campagna elettorale giri su se stessa invertendo l’ordine dei fattori, magari che la destra commetta errori clamorosi. Si aspettano i 100mila volontari annunciati e finora non visti, che il segretario imbrocchi la proposta giusta, che – come si dice in politichese – cominci a dettare l’agenda, senza inseguire Giorgia: in questo momento gli occhi di tigre ce l’ha lei. Eppure la leva lettiana resta quella dello spauracchio della destra orbaniana al governo, non dice “fascista” perché non è politicamente corretto, ma finora questa è l’unica carta che Enrico Letta ha in mano. O ne trova presto altre, o la grande paura diventerà realtà.