Novanta minuti, risultato finale zero a zero. Giorgia Meloni e Enrico Letta per la prima, e speriamo non ultima volta (magari anche con gli altri partiti), ospiti di un Luciano Fontana pure troppo british, hanno duellato senza farsi male. Ognuno ha detto la sua, molte divergenze, com’era ovvio, ma tutto dentro una sceneggiatura soft, a tratti noiosetta, evitando lo scontro diretto, fianco a fianco ma senza quasi mai guardarsi. Vai a capire se è l’aplomb professorale del segretario del Pd o la forzata conversione di stile di Giorgia la “colpa” di un faccia a faccia che sembrava non a 13 giorni dal voto ma in un momento di normale tran tran politico.
Detto questo, certo, sono emerse tutte le diversità di vedute, con il segretario del Pd che ha tenuto il punto è la leader di Fratelli d’Italia sempre un po’ elettrica ma non estremista. Sull’Europa, lui super-europeista e lei, malgrado non faccia più crociate contro Bruxelles, però è sempre quella di un ambiguo «interesse nazionale», clava sempre pronta contro l’Unione.
Sulle riforme istituzionali, scopriamo – colpa nostra – che Meloni è per il semipresidenzialismo («la proposta della bicamerale di Massimo D’Alema, forse D’Alema voleva pieni poteri?»), mentre Letta è sembrato su questo tema un po’ fermo sulle gambe. Sui diritti, con lei che sostiene, alla Salvini, che « i bambini hanno bisogno di un padre e una madre» e Letta che replica brillantemente, «No, i bambini hanno bisogno di amore» (e ancora lei: «L’amore qui non c’entra gnente»).
Ma delle differenze si sapeva, e paradossalmente più i toni erano tranquilli più entrambi si sforzavano di sottolineare la loro alterità fino al gran finale, in cui hanno risposto idealmente tenendosi per mano che no, non esiste la possibilità di governare insieme. Addirittura per Letta il 25 settembre è «come un referendum», lo ha detto con forza ma senza ripetere davanti a Meloni che se vincesse quest’ultima ci sarebbe un problema per la democrazia, affermazione col botto che però, all’atto pratico, in un faccia a faccia, si dimostra un tantinello propagandistica, tanto è vero che il leader del Nazareno non ha raccolto la provocazione di Giorgia sulla terribile frase di Michele Emiliano sulla «Puglia come Stalingrado» e sul «sangue che la destra dovrà sputare»: se FdI fosse davvero un pericolo democratico, avrebbe ragione il satrapo pugliese.
Lei elegante, orecchini intonati alla camicetta e coda di cavallo, lui sobrio e «fair, cortese che non vuole dire molle» (parole sue), si vede che si riconoscono e si apprezzano, senza smancerie ma con evidenza, Giorgia che già si vede a palazzo Chigi e Enrico che fa più fatica ma ci crede e comunque pare contento di sé, non c’è malizia né un minimo di scorrettezza tra i due, c’è passione fredda, professionale, non è Kennedy contro Nixon né Mitterrand contro Giscard ma nemmeno Macron contro Le Pen.
Un pomeriggio di un giorno da rivali ma senza menarsi, come si dice a Roma, forse perché sembra tutto già scritto, forse perché alla fine non c’è molto altro da dire che non sia già stato detto.