Sinceramente non tuo I cinquantenni falliti e colati a picco raccontati da Leonardo Colombati

Con ironia tagliente, il nuovo libro dello scrittore edito da Mondadori si snoda attraverso le vicende di protagonisti spiantati, in fuga, scomparsi, annichiliti dal presente e tuttavia quasi eroici. Come ad esempio, quella di Antonello Durante e Luca Vinciguerra

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Il mondo è un disastro, lo so. Abbiamo il coltello puntato alla gola. E questo piccolo ritaglio del globo che chiamiamo Roma non fa eccezione: nelle fessure dei marciapiedi ci crescono cespugli così grossi che i borseggiatori vi si possono nascondere dentro. È talmente buia, Roma, che non si riesce nemmeno più a descriverla, di notte. Io, poi, vado a letto così presto che certe volte d’estate il sole non è ancora tramontato. Tanto, che c’è più da fare, cosa c’è ancora da vedere a Roma, la notte?
Un tempo mi servivo di quasi tutto il mezzo milione di parole che riporta il dizionario perché sembrasse sgorgarmi con naturalezza (una naturalezza che qualche critico ha definito “snervante”) un tono che mescolasse il solenne e il colloquiale, il sentimentale e il barocco, l’angoscioso e l’ironico, il biblico e il malavitoso per descrivere il mondo notturno di questa città in mano a sottosegretari coi loro galoppini, calciatori, cravattari, topi d’appartamento, speculatori edilizi, produttori di serie TV, giocatori d’azzardo, ministeriali, corniciai, elettrauti, baristi, registi cinematografici, milanesi in viaggio d’affari, tassisti e spacciatori.

Ma ormai mi viene sonno presto – ed è un bene: gli occhi si chiudono come un mantello su questa immensa e morente topografia. La spiegazione freudiana secondo cui uno scrittore è mosso dal desiderio di fama, di sesso e di denaro con me non funziona più. Perché io non mi muovo proprio. Preferisco farmi tutto un sonno, e il Pasaden è il mio compassionevole Morfeo. Antonello, invece… Antonello è sempre stato un animale notturno; perfettamente a suo agio anche con i tratti più spaventosi e violenti di questa città. Anche in tempi recenti. Anzi, potrei dire che più i fattori sociali esterni hanno provato a schiacciarlo, più il Nostro ne è risultato accresciuto in termini di volontà, forza e libertà. In che modo poi abbia usato volontà, forza e libertà è un altro discorso.

Quando l’ho incontrato durante la sua latitanza, continuavo a rimandare il momento in cui gli avrei chiesto come gli era venuto in mente di cedere allo strozzinaggio, farsi coinvolgere in una truffa e abbandonare i figli. Le cause psicologiche, che dovrebbero essere il pezzo forte del repertorio di uno scrittore, mi sfuggivano. Quelle pratiche, invece, me le ha chiarite lui senza nemmeno aspettare la domanda, facendo un lungo passo indietro fino a pestare i pavimenti moquettati degli anni Ottanta.
«Sono un ludopatico, lo sai.»
«No, non lo so. O almeno non lo sapevo. Me lo dici tu adesso.»
«Dài.»
«Sapevo che ti piace giocare a carte e che vai alle corse dei cavalli; ma non immaginavo che ti fossi giocato tutto.»
«Dicono che sia una malattia. Di sicuro è un vizio; la passione più antica e resistente che ho, più della musica, più della fotografia. Col poker mi sono mezzo rovinato. Coi cavalli ho rovinato l’altra metà. A un certo punto me ne sono pure comprato uno, ricordi?»
«Come no.»
«Spatchcock. Un baio inglese di sette anni, figlio di Dutch Art e Lady Hen.»
Me lo ricordo sì, Spatchcock. Lo amava così tanto che ci è mancato poco ci dormisse insieme: poteva vantare nobili ascendenze, ma era costato poco per via di un infortunio che Gaetano, lo stalliere, era sicuro di saper curare. In effetti, a Capannelle una corsa Spatchcock l’ha vinta. Diana si era rifiutata di andarci; con tutto l’odio che nutriva nei confronti del povero Spatchie, avrebbe potuto contravvenire al suo vegetarianesimo e farselo servire a bistecche. Purtroppo, Spatchcock quasi subito si è infortunato di nuovo e ad Antonello è toccato subire mesi di “te l’avevo detto” senza poter opporre alcuna resistenza.

«Quando ero ragazzo, ogni tanto andavo con gli amici a Tor di Valle, che oggi è un rudere seminascosto tra discariche e arbusti; era un ippodromo immenso, con due grandi tribune coperte, un parterre sconfinato, bar, ristoranti, ascensori, scale mobili e saloni sotterranei per le scommesse. Ci sei mai stato?»
«No.»
«Arrivavi al parcheggio e qualcuno t’indicava immancabilmente il posto dove la banda della Magliana aveva seccato Franchino er Criminale. Il più assatanato del gruppo, quello che si sarebbe giocato pure la madre, era Dario, detto il Ginka.»

Stava parlando proprio di lui: quel Dario Piermattei balzato – come si dice – agli onori delle cronache. Ginka viene da gimcana, per la maestria con cui aggira i creditori.
«Una volta partecipò, bastone in pugno, a un’invasione di pista per una decisione dubbia da parte della giuria. Dalle scuderie è calato un piccolo esercito di guidatori, artieri e proprietari con armi improprie di varia natura. Noi, dalla tribuna, ci siamo uniti e per un’ora s’è fermato tutto. Alla fine il derby l’ha vinto Aprile. Figurati se me l’ero giocato.»
«Ecco.»
«Il Ginka era più grande di me di qualche anno; era rispettato perché conosceva tutti i bookmaker di Tor di Valle. Non vinceva mai. Una volta aveva puntato una femmina della scuderia Orsi Mangelli, si chiamava Liri, e stava per vincere facile, ma ci fu un black-out dell’impianto d’illuminazione. Il caos: urla disumane, gente che metteva mano alla pistola… La corsa venne ripetuta più tardi. Giù nel parterre, il Ginka aveva la schiuma alla bocca. All’uscita dell’ultima curva, Liri era in testa; sul rettilineo aumentava il vantaggio; stramazzò a quattro di bastoni facendo ribaltare il sulky col povero fantino a venti metri dal traguardo, proprio mentre il Ginka, paonazzo, gridava: “Andiamo, piccolina!”. Mi ripeteva sempre: “Ti rendi conto? So’ talmente sfigato che non l’ho bruciato, l’ho proprio ammazzato”. Ma niente e nessuno potevano scoraggiarlo. Un’altra volta, era nell’agenzia scommesse di piazza Mancini. Fissava il monitor con quei suoi occhi a palla, s’era giocato un sacco di soldi, il cavallo incredibilmente gli ha vinto. Un attimo dopo, entrano due con le calze calate sulla faccia, armi in pugno: “Tutti a terra, questa è una rapina!”. Si sdraiano tutti, terrorizzati. Tutti tranne il Ginka, che salta su un tavolo e agitando lo scontrino inizia a urlare: “Ho vinto e pijo pagato, nun me cagate er cazzo!”.

Al Ginka piaceva qualsiasi gioco: poker, biliardo, corse dei cani, chemin de fer… Una notte portò tutta la banda in un appartamento alla Balduina dove era stata allestita una
bisca. C’erano almeno cinquanta persone, per la maggior parte pregiudicati, distribuiti tra tavoli di poker e chemin, e tutt’attorno alla roulette. L’aria era così piena di fumo che non si riusciva a capire se il Ginka piangesse o gli bruciassero gli occhi. A un certo punto il croupier fece troppa forza nel girare la ballerina e quando gettò la pallina sul disco questa schizzò via a velocità supersonica fuori dalla finestra aperta. Dato che era l’unica pallina a disposizione, i giocatori si precipitarono per strada. È stata l’ultima volta che ho visto il Ginka per molti, molti anni: bocconi sul marciapiedi, alle tre del mattino, a cercare una minuscola palla bianca sotto le auto parcheggiate. Quando chiedevo di lui, tutti allargavano le braccia. Dove sarà finito, mi domandavo insieme ai vecchi compagni di strada: proprietario di un chiringuito ai Caraibi o incaprettato in un fosso da qualche creditore che non è riuscito a dribblare?

L’avevo conosciuto a metà degli anni Ottanta alla Rai, il circolo di biliardo dietro il Convitto Nazionale: uno scantinato maleodorante, con le pareti foderate di un’inquietante boiserie di plastica azzurra, la moquette rosso vinaccia e i sei tavoli col panno infestato da macchie di Coca-Cola e bruciature di sigaretta. Almeno una volta alla settimana, negli anni del liceo, facevo sega a scuola e lì dentro passavo tutta la mattina a giocare a 8 e 15 o a bazzica, ai tavoli delle carte, trangugiando caffè, succhi di frutta e i famigerati medaglioni che Camàl e Benedetto abbrustolivano sulla piastra per togliere al pane la consistenza della gomma e al prosciutto cotto quella del polietilene.»
«Mi stavi raccontando del Ginka» ho detto ad Antonello per riportarlo sull’attualità.
«Di colpo era sparito. Era un po’ il fantasma della nostra adolescenza: per vent’anni ho sognato che spuntava come una specie di Transformer o X-Man dalle macerie di Tor di Valle, facendosi largo tra pezzi di cemento armato e tubi di metallo. A biliardo era tra i più forti al Circolo Amici della Rai.»

Quel posto ha chiuso da anni, mi racconta Antonello; che con Carlo, Tato e il Roscio – gli ultimi reduci – ogni tanto gioca in un posto nuovo, il Cathedral. L’ultima volta il Roscio ha contribuito a rinverdire il ciclo di leggende vincendo una partita con un incredibile, impossibile rinquarto della 1, eseguito in stato di totale ubriachezza. La 1 è entrata in buca con un blop dolcissimo, il Roscio ha deposto con perizia la stecca nella rastrelliera, si è girato verso Tato (con cui si conosce da trentacinque anni), gli ha fatto i complimenti per il circolo, scambiandolo per il proprietario, ed è caduto a terra, svenuto.

Ripensare ai giorni lontani in cui erano tutti giovani e pazzi per Antonello significa dare inizio a una contabilità penosa: chi è svanito nel nulla, chi è invecchiato malissimo, chi è diventato uno stronzo, chi è morto… «Ai miei figli» dice «non so se augurare la mia giovinezza. Certo, però, è che era ancora un tempo, quello, pieno di libertà e di anarchia. Niente cellulari, internet e cazzate simili. Uscivi e potevi andare ovunque, anche ad ammazzarti a cento chilometri da casa, senza che i tuoi genitori sospettassero nulla. Ricordi? Non c’erano orari, non c’erano appuntamenti fissi, ci si trovava per caso, si mangiava quando si sentiva un buco allo stomaco, ci si perdeva per giorni e ci si incontrava di nuovo, per strada, ogni volta un po’ diversi.

Anche il Ginka, da dove era spuntato? Boh. Un giorno è arrivato, tutto in ghingheri, coi suoi misteri e il suo talento unico di mandare tutto a puttane. Si diceva che fosse figlio di un diplomatico: mah… I meglio informati sostenevano che il padre lavorasse come addetto alla sicurezza in un’ambasciata dell’Est Europa. Quel che è certo è che quando lo vedevi arrivare da lontano il primo impulso, se lo conoscevi abbastanza bene come lo conoscevo io, era quello di non incrociare per nessun motivo il suo sguardo e di filartela a tutta velocità prima che lui ti eleggesse lì, seduta stante, a suo mecenate per la serata; ma subito questa reazione veniva vanificata dall’impulso opposto di avvicinarti, farti risucchiare dalla sua follia e dalla sua simpatia, e ascoltarlo mentre raccontava in presa diretta il mondo – il solito mondo che tutti conosciamo ma che lui vedeva da una prospettiva solo sua.

Nanni, per esempio, lui lo chiamava il Pony, perché aveva la testa grossa e un grosso ciuffo di capelli, tanto per dire. Era un magnete, Ginka; o meglio, era un buco nero del cazzo.»
Poi, di punto in bianco, è scomparso, a quanto racconta Antonello. Si facevano congetture, tutte più o meno pessimistiche; invece, quando è rispuntato fuori, sembrava trasformato: elegante, azzimato, con al polso un orologio da diecimila euro, girava su una moto da film catastrofico e pasteggiava a champagne rosé nei più cari ristoranti della città. Tutta la sfiga e la simpatia che lo avevano contraddistinto da ragazzo sembravano evaporate. Sotto i baffetti ormai ingrigiti, il sorriso che si apriva era quello calmo e calcolato dell’uomo d’affari; e dopo una pacca sulla spalla e una minima concessione all’aneddotica, subito si concentrava sugli affari: in giro si stava spargendo la voce che il vecchio Ginka fosse diventato un vero mago della finanza e che, dopo un’esperienza decennale in una delle più importanti banche d’investimento svizzere, era tornato a Roma per elargire i suoi preziosissimi consigli su come far soldi.

«La sua ricchezza parla per lui, Luca: superattico sul lungotevere, casa a Cortina, un diciotto metri all’àncora a Formia… “A me non piace” m’ha detto Diana la sera stessa che gliel’ho presentato. “Ha troppa voglia di farti diventare ricco.” Magari ricco… Però mi ha garantito il quattordici per cento a tasso fisso. “Tu non hai firmato niente, vero?” m’ha domandato Diana. “Io, no” le ho detto. Invece avevo firmato.»

Aveva firmato eccome.

È stupefacente quanta gente è disposta ad affidare soldi a fiumi a un tizio che sembra Al Capone e promette soldi facili tramite investimenti fumosi e capitali sifonati all’estero o riscudati. Se si analizza la presunta truffa del Borsalino (il cappello che il Ginka porta anche d’estate, come un gangster anni Trenta) la verità che emerge è una sola: il denaro si separa sempre dagli idioti.

Coi suoi modi affabili, colorati da una vaga petulanza, il Ginka ha convinto Antonello a sottoscrivere tutta una serie di obbligazioni e lui se n’è rimasto in panciolle in attesa che gli piovessero addosso dobloni d’oro, finché il bubbone è scoppiato: sicuro ormai di poter fregare chiunque, infatti, il Ginka ha pensato bene di alzare il tiro accettando di investire dodici milioni di euro appartenenti a un noto camorrista.

«“Ma hai letto sul giornale?” m’ha detto Diana due giorni prima che scappassi. “Parlano del tuo amico Ginka.” Appena ha pronunciato quel nome, ho capito tutto. “Guarda qua” m’ha detto mostrandomi l’articolo. “Pare che la camorra l’abbia minacciato di morte e che lui si sia autodenunciato. Ha rubato milioni di euro a centinaia di poveracci. Andrà a processo con l’accusa di truffa, abusivismo finanziario e ostacolo alle attività della Consob. Meno male che ti ho proibito di fare cazzate.”»

Antonello ha gli occhi lucidi. Iniziano a pizzicargli per via del sole. «Il giorno dopo» mi spiega, «Diana ha scoperto che il nostro conto in banca è prosciugato. A quest’ora avrà realizzato che anche i libretti di risparmio intestati ai nostri figli sono carta straccia. I soldi non danno la felicità: sì, sì, vallo a raccontare a qualcun altro.»

Da Sinceramente non tuo, Leonardo Colombati, Mondadori, 324 pagine, 19,50 euro

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