Tartufismo democraticoNel grande dibattito sulla rifondazione del Pd si parla di tutto meno che della guerra (chissà perché)

Parlare dell’Ucraina costringerebbe a uscire dall’equivoco perpetuato da Letta in ogni modo, cercando, peraltro senza riuscirci, di tenere insieme Draghi e Conte, euro-atlantismo e populismo

LaPresse/Evgeniy Maloletka

Nel grande dibattito sul futuro del Partito democratico e della sinistra italiana, su come far rinascere, rigenerare, rifondare l’uno e l’altra, curiosamente, l’unica cosa di cui non si parla è la guerra in Ucraina. Vale a dire il principale problema della politica europea e mondiale, con effetti immediati sull’economia, il bilancio pubblico e quello delle famiglie, la politica energetica e ambientale, il futuro di ognuno di noi.

In tanti si affannano a ripetere che il Pd deve tornare a parlare dei problemi che interessano alla gente comune, ritrovare il contatto con il popolo, «uscire dal Palazzo» e tutto il resto della collezione di frasi fatte e luoghi comuni tipici della retorica populista da cui siamo quotidianamente sommersi, eppure l’unica cosa di cui non si parla è proprio la questione che più preoccupa l’Italia intera, tra i timori per un conflitto atomico e quelli per il rincaro delle bollette. Non è, come minimo, singolare?

È singolare ma non così difficile da spiegare. Il fatto è che mettere al centro la guerra costringerebbe a uscire dal gigantesco equivoco che il Pd tenta in ogni modo di perpetuare da quando Enrico Letta ne è diventato segretario. Il suo predecessore, Nicola Zingaretti, era stato infatti piuttosto chiaro, opponendosi in ogni modo all’avvicendamento di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, tanto da doversi dimettere un minuto dopo l’arrivo di Mario Draghi. Letta invece da un lato si è presentato come il più fermo sostenitore del governo Draghi, dall’altro ha fatto di tutto per preservare e rilanciare il rapporto con Conte e il Movimento 5 stelle, di fatto confermando punto per punto la linea Zingaretti, salvo dover prendere atto all’ultimo minuto dell’inconciliabilità delle due cose. Perché Conte non solo ha fatto cadere Draghi, innescando la crisi della maggioranza di cui hanno approfittato Lega e Forza Italia per andare al voto, ma ha condotto l’intera campagna elettorale contro di lui e contro tutte le scelte fondamentali di quello che il Fatto quotidiano chiama sarcasticamente «il governo dei migliori».

Ormai dovrebbe essere chiaro che per sapere quale sia la linea del Movimento 5 stelle il giornale di Marco Travaglio è assai più attendibile delle interviste di Goffredo Bettini. E la linea del giornale sulla crisi ucraina è fin troppo evidente, non bastassero le parole dello stesso Conte, quando ammonisce a non dire che Vladimir Putin non vuole la pace.

Buona parte del gruppo dirigente del Pd, da Michele Emiliano a Elly Schlein, da Andrea Orlando a Francesco Boccia, non ha nemmeno aspettato la fine della campagna elettorale per rilanciare la necessità dell’alleanza con i cinquestelle. Posizione legittima, che autorizza però a concluderne che in cuor loro questi dirigenti condividano le posizioni assunte da Conte, tanto su Draghi quanto (e soprattutto) su Putin. Se è così, lo dicano.

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