Insegna agli angeli a scrivereLa tragica scomparsa della morte nel lessico del lutto contemporaneo

“Si è spento”, “Non c’è più”, “è mancato”, “è venuto a mancare”, “ci ha lasciati”. Sono orrendi gli esempi di questa enclave linguistica composta di frasi fatte usate unicamente in tristi occasioni

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“L’è el dì di mort, alegher!”. Ci siamo quasi: e allora proviamo a “rallegrarci” – sia pure non come il popolino catturato nei versi di Delio Tessa per le strade di Milano, mentre a Caporetto il fronte aveva appena ceduto. Ci proviamo con le parole del lutto, quelle a cui si ricorre per annunciare, partecipare, condividere in pubblico e in privato, che sono in genere formule rituali, stereotipate, qualche volte anche ridicole.

Prendiamo il caso in cui muore un personaggio di buona – non eccelsa (per i big va diversamente) – notorietà, per esempio un artista. Sul giornale si leggerà un articolo un po’ frettoloso che attacca così: “Con Pinco Pallo se ne va…” – e qui può variare: “l’ultimo rappresentante/uno degli ultimi rappresentanti”, oppure “l’artista che…”. All’istante nella vostra mente si disegneranno due figure in dissolvenza, Pinco Pallo che si avvia (magari “in punta di piedi”) con l’ultimo rappresentante, o uno degli ultimi, oppure con “l’artista che”. Certo è un gran passo quello che lo attende, meglio farsi accompagnare. Per qualche oscuro motivo questa formula funziona meno sul mezzo radiotelevisivo. Qui è un’altra l’immagine che vi assale, un’immagine corale monodicamente compatta: “Lutto nel mondo dell’arte”; alternativa più accorata: “Il mondo dell’arte piange…” – e così ve li vedete tutti lì a versare calde lacrime per Pinco Pallo, e vi sentite anche un po’ in colpa perché in questa mondiale commozione il vostro ciglio resta cinicamente asciutto, e magari siete a tavola davanti al televisore e state ingollando l’ultimo boccone.

Se invece l’esordio è “Si è spento…”, in genere segue “… all’età di…”, perché questa è la formula di rito quando il de cuius è molto avanti negli anni, oppure da tempo gravemente e notoriamente infermo (in questo caso l’indicazione dell’età è sostituita o integrata da quella del luogo: “nella sua casa di…”, nell’ospedale di…”), e quindi la sua pur triste dipartita non è presentata come un evento per cui dare la stura alle ghiandole lacrimali, ma come qualche cosa di ineluttabile, da accettare con serena consapevolezza e composta rassegnazione. Mentre “non ce l’ha fatta” – spesso preceduto da un prolungato “eee…” metà congiunzione e metà sospiro – è il rassegnato sbrigativo cliché che precede il nome (proprio se per qualche ragione già noto, altrimenti comune: il ragazzo, la donna, l’operaio…) della vittima di un incidente, o di una malore improvviso, di cui si era data notizia in precedenza.

Quando invece il personaggio che diparte è davvero un personaggione, non c’è una regola fissa, si va a istinto, caso per caso, a seconda di chi si tratta, dell’età, delle circostanze e delle modalità della dipartita. Meno svolazzi formulari, in genere, perché la statura del personaggio non ne richiede, meno ammantamenti retorici e prevalenza di “addio a…” oppure si va dritti al sodo, “è morto/a”, tuttalpiù con variante perifrastico-ontologica: quando il 4 giugno 2004 morì Nino Manfredi, il tg delle 13,30 si aprì con la voce mesta del conduttore che annunciava “Nino Manfredi non c’è più”.

“Non c’è più”, “è scomparso”, “è mancato”, “è venuto a mancare”, “ci ha lasciati”, “ha chiuso gli occhi”: dai contesti giornalistici a quelli privati, la morte va incontro nel linguaggio alla medesima rimozione che subisce nella società contemporanea, trincerandosi dietro a elaborati eufemismi. C’è modo e modo di dire la morte, una parola dal suono sinistro che in alcune lingue può essere anche più sinistro. In una pagina di Per chi suona la campana Hemingway fa ragionare così il suo alter ego Robert Jordan: “Prendi morto [nel testo inglese dead]: mort, muerto, e todt. Todt è il più morto di tutti”. 

Non è il caso qui di indagare se e come il tedesco anestetizzi il suo todt; restando all’italiano – e senza arrivare agli estremi di espressioni come “passare a miglior vita”, “rendere l’anima”, “tornare alla casa del Padre”, “esalare l’ultimo respiro”, utilizzati per lo più in contesti particolari e spesso con intento sdrammatizzante e ironico distacco – i nostri eufemismi sono sotterfugi umani-troppo-umani per tenere a bada con le parole la dolorosa realtà che queste comunicano. Ed è significativo che siano utilizzati quasi esclusivamente al presente e al passato prossimo, mentre negli altri tempi del passato, quando il fatto a cui si fa riferimento è sufficientemente lontano da non poter più aggiungere sofferenza alla sofferenza, ritorna senza problemi il verbo morire.

Il lessico del lutto ritaglia una sorta di enclave linguistica, un mondo a parte di frasi fatte, immagini, singole parole e modi di combinarle che si ritrova unicamente in quelle tristi occasioni, e quando si incontra lascia subito intendere la situazione. L’espressione “i tuoi cari”, per esempio, si può leggere soltanto sul nastro di una corona funeraria, così come “parenti tutti” (chi mai, nella lingua di tutti i giorni, invertirebbe in questo modo aggettivo e sostantivo?) che, per farla breve e non spendere troppo, puntualmente si ripresenta altresì nelle necrologie dei quotidiani. Seguita, nelle partecipazioni, da stereotipi involontariamente comici come “vivissime condoglianze” o “prendere viva parte al dolore” (l’“avvertimento del contrario”, spiegava Pirandello, è alla base del comico).

Ma è nei social che si attinge a piene zampe il ridicolo. A ogni dipartita di personaggio popolare non mancano schiere di immaginifici condolenti che colgono l’occasione per condividere i propri alati sentimenti dando del tu al personaggio in questione e fantasticando per lui improbabili occupazioni “lassù”. Per esempio muore Maradona e decine, centinaia, migliaia di post gli si rivolgono vaticinando che “adesso nessuno potrà più fermare i tuoi dribbling”, “tornerai a segnare sui campi del cielo”, “giocherai nella squadra più forte di tutti i tempi con Sivori, Cruijff ecc.” (come se nella sua vita El Pibe non avesse fatto altro che giocare al calcio; per la verità nella seconda parte di questa vita ha fatto tutt’altro). Oppure c’era stata, in una manciata di giorni ravvicinati del gennaio 2006, una funesta sequela di lutti nel mondo del pop-rock (David Bowie, Glenn Frey ex Eagles, Paul Kantner ex Jefferson Airplane, Colin Vearncombe alias Black, Signe Anderson anche lei – accidenti – ex Jefferson Airplane): e inevitabilmente si erano sprecate le variazioni sul tema “chissà che concerto stanno organizzando lassù”. 

Lo stesso modello viene buono anche per condividere lutti privati: nel caso si annunci la perdita di una persona cara che amava fare jogging, le si spiega che potrà continuare a correre per le strade del cielo (dove peraltro non circolano auto, quindi non si rischia di inalare le cancerogene polveri sottili); se la persona si dilettava in un coro, si prevede che adesso canterà con gli angeli (e chissà se gli angeli gradiranno). Vabbè ma qui siamo “oltre” (in tutti i sensi).

Ci sono anche quelli che raccontano sui social la perdita dei loro “amici a quattro zampe” o pennuti (una rispettabile tradizione: “Passer mortuus est meae puellae / passer deliciae meae puellae”, condivideva Catullo, limitandosi però a sollecitare il pianto di Veneri e Cupidi e delle persone di animo sensibile): qualche giorno fa su Facebook una ragazza appassionata di cavalli dava l’addio all’amato destriero augurandogli “buone galoppate fra le nuvole”. Poetico, se non altro.

E così, di eufemismo in banalità svolazzante, quando indulge al vaniloquio anche il lutto può diventare occasione di (cinico) divertimento. Un sintomo comunque di vitalità. Da Delio Tessa a Ungaretti: allegria di naufragi.

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