A quasi sei mesi dall’invasione russa, proprio grazie alla scelta di resistere, e quindi di combattere e forse di morire – bene illustrata dalla triste determinazione delle donne armate –, gli ucraini hanno già affermato e conquistato questa possibilità e conseguito una prima vittoria, anche se le sorti della guerra restano aperte.
L’Ucraina, di cui prima pochi sapevano qualcosa, un qualcosa spesso fatto di dubbi e sospetti – una terra di confine più che una nazione, uno Stato la cui esistenza era quasi casuale, conteso da diverse anime, con un passato non sempre raccomandabile ecc. –, oggi esiste. Moltissimi conoscono la sua bandiera, ne riconoscono la volontà di vivere scegliendo la propria strada, e hanno imparato che l’ucraino è diverso dal russo quanto le lingue neolatine lo sono tra di loro e, soprattutto, che ci si può sentire ucraini anche parlando russo. Tanti, infine, rispettano le sue scelte coraggiose e la determinazione con cui i suoi cittadini le hanno difese e le difendono a costo di grandi sacrifici.
Grazie a questi sacrifici gli ucraini hanno già conseguito anche un’altra importante vittoria, garantendo l’esistenza di uno Stato ucraino libero, associato all’Unione Europea e con Kyïv come sua capitale. Certo, la ferocia e la determinazione di Vladimir Putin e della sua cerchia, che hanno bisogno di una vittoria e di conquiste territoriali per garantirsi la sopravvivenza, così come la sproporzione delle forze in campo, spingono a ritenere che questo nuovo Stato subirà probabilmente mutilazioni dolorose, specie per gli abitanti dei territori amputati.
Per la comunità internazionale sarà difficile riconoscere queste mutilazioni, e i confini orientali dell’Ucraina (e perciò dell’Unione Europea) saranno quindi probabilmente a lungo confini instabili e armistiziali. L’ampiezza delle mutilazioni sarà decisa sul campo di battaglia, dove gli ucraini hanno dimostrato quanto possano valere morale e tenacia, specie quando sono sostenuti da una tecnologia che mette in discussione il dominio dei carri armati, uno dei simboli più mostruosi delle logiche di prevaricazione del XX secolo.
Pesa, però, anche la soverchiante forza russa, frenata tuttavia dalle difficoltà politiche che Putin incontra nell’ordinare una mobilitazione generale che mostrerebbe l’ipocrisia di una «operazione speciale» trasformata così formalmente in guerra; contraddirebbe le teorie sull’Ucraina Stato e nazione inesistente (e a cui non era quindi necessario muovere guerra); e troverebbe poco sostegno specie presso la parte più giovane e istruita del paese.
È quindi possibile che l’andamento del conflitto, che ha già costretto Mosca a ridurre le ambizioni dell’«operazione speciale», rinunciando al controllo su gran parte dell’Ucraina, la costringa a rinunciare anche al controllo dell’intera costa del Mar Nero fino alla Transnistria. Anche il progetto «Nuova Russia» conoscerebbe così un ridimensionamento, almeno temporaneo, e un Donbas incompleto legato alla Crimea da una larga fascia di territori si trasformerebbe nell’obiettivo «da sempre desiderato».
Altre opzioni sono tuttavia possibili, gli scenari finali sono molti, e sarà naturalmente la guerra a decidere, una guerra che a fine agosto ha già fatto probabilmente ben più di 100.000 morti e ancor più feriti. I dati sono ancora controversi, ma le stime parlano di decine di migliaia di civili uccisi, essenzialmente ucraini e residenti delle repubbliche popolari del Donbas, e di altrettanti soldati morti o dispersi, di cui 30-40.000 russi. A fine agosto i rifugiati in Europa erano invece quasi sette milioni, circa due milioni dei quali in Russia, dove molti si sono diretti per mancanza di alternative e altri sono stati portati con la forza, senza che vi sia chiarezza sul loro trattamento, le loro condizioni, i loro diritti e il loro futuro.
I pericoli, quindi, sono grandissimi e le reazioni ufficiali russe – almeno quelle oggi visibili – alle prime, inattese sconfitte e all’andare in frantumi delle speranze iniziali sono inquietanti, come dimostra l’evoluzione della fantastica categoria della «denazificazione», che analizzerò alla fine della prima parte di questo libro. Al momento in cui scrivo vi sono indiscutibili evidenze di crimini contro l’umanità, ma non sembra essere ancora possibile parlare di genocidio, o almeno spero non lo sia, visto che non è dato sapere quanto accade nei territori occupati e non è escluso che gruppi specifici di persone vi siano stati «liquidati», per usare l’espressione staliniana.
Ma certo il discorso putiniano, a suo modo già potenzialmente genocidario quando negava il diritto dell’Ucraina di esistere come soggetto (ricalcando quanto si dicevano Adolf Hitler e Vjačeslav Molotov della Polonia nel 1939), e quello di ampi strati di una incultura russa che tradisce e avvelena una grande e nobile tradizione hanno assunto toni apertamente genocidari, come dimostrano i testi e i discorsi cominciati ad apparire dopo la sconfitta a Kyïv.
La speranza è riposta, oltre che sulle capacità degli ucraini e sugli aiuti che molti paesi stanno prestando loro, sulla relativa debolezza russa. Putin vuole «make Russia great again» su basi più fragili di quelle su cui Donald Trump ha costruito il suo discorso per gli Stati Uniti e dopo una sconfitta/catastrofe maggiore, che non è stata però della Russia (che dopo il 1991 ha a lungo festeggiato il giorno della sua dichiarazione di sovranità), bensì dello Stato sovietico, uno Stato che l’anticomunista Putin oggi identifica erroneamente con la Russia.
Non è escluso che queste basi, oggettivamente limitate (basti pensare alle dimensioni dell’economia russa e a una crisi demografica in parte simile alla nostra, malgrado alcune importanti differenze), siano state minate anche da una corruzione che ha allignato ovunque, corrodendo i vertici di forze armate e servizi di sicurezza un tempo rispettati, e non solo quelli di un regime famoso per i suoi oligarchi.
Il tempo dirà se Putin assomigliava anche a Mussolini, ma si può già dire che le sue scelte porteranno la Russia, che – come sosteneva Aleksandr Solženicyn – aveva già perso il XX secolo per le tragedie causate dal 1917, a perdere anche il XXI, aperto da un brusco peggioramento delle prospettive della sua popolazione. Tuttavia, non bisogna mai dimenticare il già ricordato assoluto bisogno che Putin ha di vincere, la superiorità delle sue forze, la ferocia già dimostrata nella seconda guerra cecena o in Siria.
Da L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia di Andrea Graziosi, Laterza, 200 pagine, 16 euro