Da Alitalia, Cassa depositi e prestiti si è sempre salvata, anche se il suo nome è venuto regolarmente fuori a ogni nuova stagione di salvataggi. Dall’Ilva pure, anche se si ricorda la sua presenza nella cordata di AcciaItalia con Arvedi e Del Vecchio, quattro anni fa, scioltasi quando alla fine la società siderurgica è stata assegnata alla cordata concorrente di Arcelor Mittal con Invitalia.
Oggi per la grande banca pubblica di via Goito, che per l’Unione europea è un «intermediario finanziario» con, per di più, soci privati (le fondazioni bancarie al sedici per cento) e che quindi non dovrebbe occuparsi di salvataggi di Stato, il problema si chiama Telecom. O Tim. O Rete unica in fibra ottica. O comunque si voglia chiamare quella partita in cui Cassa ha il 9,8 per cento della Telecom controllata da Vivendi, e il sessanta per cento di Open Fiber.
A sentire le cronache della politica sembra che anche dal governo di Giorgia Meloni nessuno pensi più a far tornare Telecom pubblica nella sua interezza. Si ventila una versione del Piano Minerva in cui non Cdp da sola ma assieme a Vivendi lanci un’opa finalizzata al ritiro di Telecom dalla Borsa per poi procedere alla separazione della rete, che resterebbe pubblica e si unirebbe in Open Fiber, dall’operatore di servizi, sia lato consumo che business, che tornerebbe ai privati (presumibilmente fondi).
Il risultato finale sarebbe lo stesso ma il percorso più lungo, accidentato e costoso. E comunque il nodo resta sempre la valutazione della società diretta da Pietro Labriola, ossia il premio da riconoscere a Vivendi per cedere la maggioranza e togliere il disturbo.
Il caso Telecom è dunque una spada di Damocle che pende su Cdp. Per i costi che comporta ma non solo. Perché rischia di inceppare (tra esborsi e polemiche politiche) un ingranaggio che marcia spedito in tutt’altra direzione che non essere la cassaforte delle partecipazioni di quella che fu la vecchia economia di Stato del secolo scorso. Cassa depositi e prestiti è infatti oggi uno snodo chiave dello sviluppo dell’intero tessuto economico italiano, una leva strategica per attrarre capitali verso l’universo delle piccole e medie imprese, verso le filiere produttive e le specializzazioni territoriali.
A spiegarlo bastano i numeri. Secondo il Piano strategico 2022-24, approvatolo scorso novembre e che riporta i dati del 2021, Cassa ha un attivo patrimoniale di quattrocentodieci miliardi di euro, composti tra l’altro da oltre 180 miliardi di tesoreria e impieghi a breve, 107 miliardi di crediti, quasi ottanta di titoli di debito, trentasei miliardi di partecipazioni in società e fondi; può contare sui 275 miliardi di raccolta postale. Ma già nella semestrale allo scorso fine giugno i numeri sono in ulteriore crescita: attivi a 485 miliardi, la raccolta postale a 280 e via crescendo.
Una valanga di soldi che si spalma sull’intera economia italiana, dalle pubbliche amministrazioni alle imprese. Senza contare il ruolo di Advisor che Cdp svolge nell’aiutare la Pubblica amministrazione, dai ministeri (che supporta nei progetti per il raggiungimento degli obiettivi, e relativi soldi, del Pnrr, per cui ha fatto partire progetti per trentasette miliardi) agli enti locali per realizzare opere pubbliche e attivare finanziamenti europei.
Solo da inizio anno ha rifinanziato mutui Mef per le Regioni facendo risparmiare 1,7 miliardi di interessi. Già, forse il maggior ruolo di Cassa è proprio nell’opera di gestione dei progetti. Con l’imprimatur di Via Goito è più facile attivare l’intervento dei fondi comunitari e i coinvestimenti dei privati: un effetto leva che arriva spesso a raddoppiare le risorse disponibili.
Lo esemplifica bene ancora il Piano strategico 22-24. Nei tre anni, quello in corso e i prossimi due, Cdp impegnerà sugli obiettivi definiti sessantacinque miliardi di euro, che ne attireranno quasi altrettanti, 63 miliardi, da parte di altri investitori, arrivando così a 128 miliardi complessivi. Quanto pesa in questo l’affidabilità sui mercati di Cdp come advisor e partner? Presto detto: dal confronto con il Piano precedente, il 2019-21, le risorse impegnate sono cresciute di ben il quattordici per cento, ma quelle messe da Via Goito sono state appena del cinque per cento più alte. Ossia, mettendo appena il cinque per cento in più, il totale delle risorse è cresciuto di una quota tripla, perché nel frattempo sono cresciuti del ventisette per cento gli investimenti delle terze parti.
A livello europeo è soprattutto la Bei, la Banca Europea degli Investimenti, che ha trovato in Cdp un partner affidabile per far arrivare più soldi sui progetti italiani. E il feeling è anche supportato, dall’anno scorso, dall’arrivo al vertice come ad di Dario Scannapieco, che della Bei è stato vicepresidente per quattordicini anni.
Dal punto di vista societario, Cdp è una holding operativa con cinque subholding di settore. Nella capogruppo ci sono le partecipazioni finanziarie come Eni, Poste, Telecom e quelle minori che non hanno un settore di riferimento e che non coinvolgono direttamente Cassa nella gestione, dal Credito Sportivo alla Enciclopedia Treccani. Cdp Reti controlla invece le infrastrutture strategiche per il Paese: Terna per l’energia, Snam e Italgas per il gas.
In Cdp Equity ci sono tutti gli asset legati alle imprese: sono qui le partecipazioni fatte con una logica da fondo di investimento: azionista di medio lungo periodo ma con l’obiettivo dell’exit, ossia dell’uscita, alla fine del percorso di valorizzazione e sviluppo. Qui si trovano da Webuild ad Ansaldo Energia, da Open Fiber (che potrebbe finire in Cdp Reti una volta conclusa la partita della rete unica) ad Autostrade per l’Italia. Quote di soggetti finanziari come Nexi e Euronext, il network di Borse paneuropee a cui fa capo anche Piazza Affari. E poi fondi, come la quota di F2i, il cinquantacinque per cento del Fondo Italiano di Investimento e tutto il comparto di venture capital di Cdp, Cdp Venture, che convoglia investimenti verso le startup.
Faceva parte di Cdp Equity anche Fsi, il Fondo Strategico Italiano da cui Cdp è uscita prima dell’estate, mentre in rampa di uscita è anche Bf, Bonifiche Ferraresi, la farmaceutica Kedrion e forse, ma sono voci non confermate e comunque con tempi più lunghi, la Rocco Forte Hotels. Nella scatola Cdp Industria ci sono solo due partecipazioni, Saipem e Fincantieri. A sé sta la Simest che finanzia lo sviluppo estero delle imprese italiane e infine c’è il comparto immobiliare, in via di ristrutturazione. Qui sta per nascere Cdp immobiliare Sgr, che eredita tutti gli asset immobiliari del gruppo e la gestione dei fondi dedicati, mentre la vecchia Fintecna, oltre a continuare ad occuparsi di processi liquidatori, inizierà anche ad erogare servizi immobiliari.
Una struttura complessa, che opera sia in modo diretto che attraverso quote di altri fondi, una cinquantina, e che ha ad oggi in essere 888 iniziative di investimento in Europa, 756 delle quali in Italia, a cui se ne aggiungono undici in Asia, nove in Nord America, otto in Sud America e due in Africa. Quasi tutte (tolte alcune iniziative di cooperazione internazionale allo sviluppo) sono piani di appoggio agli investimenti di società del made in Italy all’estero. E tutte iscrivibili all’interno di dieci Linee guida Strategiche settoriali del Piano quanto a tematiche.
Ma per quanto riguarda i soggetti destinatari non ci sono dubbi: quasi la metà dello sforzo è sostegno alle imprese. Dei 128 miliardi del Piano 22-24 al settore immobiliare vanno due miliardi, alle nuove partecipazioni dirette tredici, mentre quattro andranno alla cooperazione internazionale. Alle infrastrutture e alla Pa ne andranno cinquantatré e la quota maggiore, cinquantasei miliardi, sono finanziamenti alle imprese. Sono soldi che arrivano sui territori. E sembra essere proprio questa la vocazione prevalente di Via Goito. Cassa sta infatti costruendo una rete di presidio territoriale in ogni Regione. E per ogni Regione sta mettendo a punto piani di sviluppo che va via via presentando.
I vertici di Cdp non danno dati aggregati di quanto fatto finora ma hanno appena presentato quello che hanno realizzato solo in Toscana, che può già essere un buon esempio. Qui, dal 2019, Cdp ha impegnato tre miliardi di euro per cinquemila imprese e centotrentotto enti pubblici. Al settore pubblico in particolare sono andati 825 milioni per interventi che vanno dalle scuole alle infrastrutture, dalle strutture sanitarie (centri Covid, presidi medici. La creazione di un Fondo Housing Toscana per 1.250 alloggi sociali tra Firenze, Scandicci e Sesto Fiorentino, la valorizzazione della ex Manifattura Tabacchi di Firenze.
Attraverso Cdp Venture Capital è entrata in nove startup, mentre attraverso il Fondo Technology Transfer apporta risorse a Robo-It, polo nazionale di trasferimento tecnologico per la robotica in collaborazione il Sant’Anna di Pisa, la Federico II di Napoli e l’Università di Verona.
Dicono che in Via Goito non amino molto la definizione di Cdp come Banca dei territori, ma di fatto quello fa. E non è che con questo si vada a sovrapporre al sistema bancario. Anzi. Anche qui agisce come collettore e garante. A metà ottobre ha annunciato l’impegno alla sottoscrizione per intero di una emissione obbligazionaria di Unicredit per 750 milioni da destinare a Pmi e mid-cap, con il vincolo di investirne almeno il venticinque per cento al Sud e almeno il cinquantuno per cento in piccole imprese.
A settembre ha lanciato un programma di Basket Bond per centocinquanta milioni con Mediocredito Centrale e Finint e con garanzia Bei: i basket bond serviranno a sottoscrivere emissioni di minibond da parte di nove medie imprese italiane. Dieci giorni fa ha infine sottoscritto per intero un’emissione obbligazionaria da duecento milioni di Cassa Centrale (gruppo cui aderiscono le banche di credito cooperativo e le casse rurali) per favorire l’accesso al credito di settanta aziende medio piccole. E sono solo gli ultimi trenta giorni o poco più. Intanto sulla rete unica è arrivata l’ennesima proroga.