Ogni anno, all’inizio di novembre, l’appuntamento con Artissima, la fiera internazionale di arte contemporanea che si è tenuta nei giorni scorsi a Torino, è il rito penitenziale che ritengo equo infliggermi per le mie colpe di frequentatore di belle mostre. Un esercizio di sadomasochismo. Il masochismo è indubitabile e probabilmente incurabile, al sadismo invece do sfogo scattando centinaia di foto e postandone una piccola rassegna su Facebook: ci sono anche alcune cose belle, in verità (infatti mi domando perché si trovino lì), ma io punto su quelle che fanno massa, le peggiori – il Divin Marchese che opera in me -, scelgo fior da fiore (del male) e nella carrellata infilo ogni volta un “intruso”, per vedere se qualcuno se ne accorge. Una “provocazione” (parola che va forte tra gli artisti d’oggi) per “riflettere” (altra parola gettonatissima) sulla deriva dell’arte contemporanea, che si sta decomponendo tra gli applausi dei suoi interessati banditori.
Ok, io non la amo, non amo l’Arte concettuale, l’Arte povera, il Minimalismo. Sarò io che mi ostino a non capire? È vero, gli estimatori sono tanti, ma tanti sono anche i detrattori, sebbene travolti dal chiasso conformistico. È un po’ come nella favola dei vestiti nuovi dell’imperatore: i cortigiani vedono che il re è nudo, ma, siccome i sarti sostengono di aver utilizzato un tessuto particolare invisibile agli stolti, nessuno osa confessarlo e tutti si sperticano nelle lodi.
Torniamo alla mia provocazione. Per anni il mio intruso è stato uno degli estintori disseminati nell’Oval del Lingotto. Ho dovuto accantonarlo quando in una elegante teca della Collezione Pinault, alla Bourse de Commerce di Parigi, mi sono trovato davanti proprio un estintore: titolo MAIP, che sta per “Matériel industriel de protection” (banalmente, il marchio del prodotto), anno domini 1981, autore Bertrand Lavier, un architetto che disgraziatamente (o fortunatamente?) non progetta edifici ma si è specializzato nella trasformazione di oggetti comuni in (presunte) opere d’arte. In quel caso l’intervento d’artista era consistito nel prendere l’estintore e (lascio parlare la scheda della Collezione, perché è in molti sensi illuminante) ridipingerlo “pazientemente nello stesso colore, con gli stessi motivi e messaggi, dell’oggetto originale. […] La copertura dell’estintore con uno strato di vernice spessa e ‘pittorica’, che lascia la traccia visibile del pennello, conferisce un nuovo status ibrido all’oggetto e segnala l’irriverenza del suo autore. Bertrand Lavier sottopone l’opera del pittore, dell’artista, alla domanda: cosa significa dipingere? È ‘ben dipinto’? La pittura è sufficiente per creare un’opera?” (corsivi miei).
Ah però! Come abbiamo fatto a non pensarci prima, ingenuotti che siamo… Il problema è che queste domande Lavier continua a porle (evidentemente non ha trovato risposte) da più di quarant’anni, pazientemente ridipingendo estintori, frigoriferi, specchi, pianoforti. Non proprio ready-made, ma insomma sai che ideona, a un secolo e rotti dai primi realizzati da Duchamp. Ma soprattutto: come arrivare a comprendere che proprio in quegli interrogativi dilanianti era l’intenzione “irriverente” dell’artista, se non ci fosse una scheda a chiarirlo? È la vera, decisiva domanda che sorge di fronte a tanta arte contemporanea.
L’arte è o dovrebbe essere una forma di comunicazione intensificata e tendenzialmente universale, in grado di suggerire pensieri e emozioni non esprimibili a parole e immediatamente recepibili da quanti condividano determinati codici culturali. Per esempio le scene sacre rappresentate sulle pareti delle chiese medievali erano perfettamente leggibili da persone che parlavano lingue diverse e in gran parte erano pure analfabete. Ma l’arte di cui Artissima offre uno spaccato esemplare?
In un’edizione di alcuni anni fa mi ero imbattuto in una tela completamente ricoperta di righe vigorosamente tracciate a biro multicolori, con un accanimento particolare nella parte centrale, che infatti presentava un bel foro. Una lunghissima elucubrata didascalia spiegava con alate parole che l’artista aveva inteso rivelare ciò che la tela in genere occulta: ossia… la parete retrostante! Accidenti, anche a questo non avevamo mai pensato, ma adesso che lo sappiamo, anzi ne abbiamo “preso coscienza”… E però, senza l’aiuto della didascalia, come avremmo potuto aprire le nostre povere menti a tanta rivelazione?
Da qualche anno, tuttavia, a Artissima le didascalie esplicative, lunghe o brevi, sono quasi del tutto scomparse. Probabilmente il pubblico è ritenuto ormai abbastanza alfabetizzato da capire quel che c’è da capire: ossia che non c’è niente da capire, ma si può benissimo fingere di capirlo. La forma estrema – e caricaturale – del nichilismo in cui Nietzsche individuava il destino della cultura occidentale. Così, per esempio (ritorno alla mia catabasi nella Casa della polvere), cosa ricavare da un trespolo di legno sulla cui cima etichette e confezioni accartocciate di prodotti alimentari sono mescolate a foglie secche e rottami di plastica, il tutto tenuto insieme da un grosso fiocco di tela a trama larga? L’artista (citerò soltanto i peccati, non i peccatori) “lavora” sulla sostenibilità ambientale, interviene soccorrevole uno standista. Ah ecco. E allora? In un’altra “opera” del medesimo artista, due quadri perfettamente bianchi, ognuno con una scritta a rilievo, sempre bianca e quindi quasi impercettibile, si riesce a leggere in una “Nothing to see”, nell’altra “Nothing to say”. Appunto.
Niente da vedere, niente da dire. È lo stesso di fronte ai ripetitivi, monotoni monocromi che spuntano ovunque, riproposti ogni anno con temeraria improntitudine da artisti che si presumono originali continuando a replicare l’Yves Klein di settant’anni fa. Come pure di fronte alle tele e ai fogli sporcati con qualche spatolata di colore indefinibile, invariabilmente intitolate Untitled, o agli innumerevoli patchwork di metalli e materiali vari contrassegnati da titoli il cui rapporto con l’oggetto in questione sfuggirebbe anche a un paragnosta. In almeno un caso – un’accozzaglia di abiti logori appesi a una gruccia da tintoria e avviluppati nel nylon, sempre da tintoria – c’è la variante: To be titled, dall’opera in progress al titolo in divenire. Per non dire di lavori (installazioni?) come il frammento di pietra lavorata, forse un reperto archeologico, anonimamente adagiato a terra su un tappetino di cuscini d’aria ammortizzanti. Qui – ma non è un caso isolato – il titolo non c’è proprio, bisognerebbe chiedere ai galleristi: anche no. E poi le solite videoinstallazioni di magnetica tediosità, la stravista esasperante tecnica della slow motion e della ripetizione senza fine, cose che Bob Wilson praticava già cinquant’anni fa, sulle scene e nella produzione artistica, ispirandosi al teatro Nō giapponese.
La via crucis è lunga. Che cosa mai vorrà comunicarci l’artista tedesca che espone una specie di grosso portasciugamani a cui è appeso un ritaglio di pelle nera? Anche in questo caso il titolo non aiuta: Martini Racing II, che cosa vorrà dire? E anche in questo caso è risolutivo il soccorso della gentilissima gallerista: si tratta di un omaggio alla città che ospita la fiera, spiega con qualche esitazione, per via del richiamo al noto aperitivo e alle auto – il racing, la pelle con cui vengono (venivano) rivestiti i sedili. Ah ecco. L’artista, prosegue la spiegazione, ha personalmente modellato e saldato l’acciaio della struttura, è un’artista che lavora sulla manualità, lascia volutamente le sue opere non rifinite, con tracce di bruciatura, e insomma si direbbe che tutto il senso del suo lavoro creativo siano le operazioni dispiegate nelle diverse fasi di questo lavoro e non nel risultato finale. Vabbè, a noi che ce ne cale? Vende più ai musei che ai privati, aggiunge la gentilissima. E te credo! Infatti molte opere di Artissima sono acquistate dai musei, in genere pubblici o sostenuti dall’intervento pubblico, quindi da tutti noi.
Altro materiale per la rubrica “E chi se ne frega” del settimanale satirico Cuore, se non avesse da tempo cessato le pubblicazioni, nello stand che esponeva tra l’altro una grande pezza di lino color écru con sette macchie verdi irregolarmente distribuite, dal magniloquente titolo Hourly directional field notation, 10 January, organ pipes wilderness: a cortese richiesta, si viene a sapere che si tratta del foulard in cui l’artista, americana influenzata da Thoreau e dalle dottrine zen, si avvolgeva durante le sue camminate nei boschi; le macchie verdi sono le impronte dei passi. Lasciamola a godersi la pacificante comunione con Madre Natura, ma lei lasci in pace noi.
C’è poi il capitolo delle scritte, al neon o metalliche, dove compiutamente si manifesta il potere dell’arte di svelare al volgo regioni inesplorate della psiche, della condizione umana e dell’essere tout-court. Eccone alcune: “This is not real / More than real”, “We rise by lifting others” (l’inglese va forte, favorisce un certo “pathos della distanza”; anche quando, come in questi due casi, gli autori sono italiani), “Society is an abstraction”, “False gods”, “La pioggia cuce la terra al cielo”, “Frutta”. Ripeto: frutta.
Forse i galleristi, arrampicandosi sugli specchi (a Artissima ce n’erano tanti, erano delle opere), potrebbero aiutarci a decodificare le scritte e tutto il resto. Certo, è arte concettuale, ma che arte è se non si spiega da sola ma per parlarci ha bisogno di ricorrere alle parole, ossia l’opposto dei segni, delle forme, dei colori, dei gesti che dovrebbero essere i suoi strumenti?
E invece alle parole occorre ancora rivolgersi davanti al rottame rugginoso – l’involucro di una vecchia cucina a gas, sembrerebbe – sulla cui parete visibile l’artista e attivista, una giovane bosniaca, ha stampato la sua pregevole immagine con abitino sexy e ascia in mano. Da bambina, è la solerte spiegazione, recuperava rottami metallici per aiutare la famiglia, ma a un bel momento ha avuto la pensata di utilizzarli per dare vita alla propria arte, “in cui veicola il suo messaggio femminista, la sua visione improntata all’empowerment delle donne” e blablabla. E così i rottami, anziché essere ecologicamente eliminati e riciclati, si accumulano e si moltiplicano, e un giorno non lontano si dovrà pure porre il problema del loro smaltimento. Un problema estensibile a tanti prodotti dell’arte contemporanea, che sono spesso brutti, sporchi e maledettamente ingombranti, quindi non alla portata di un normale privato, per quanto abbiente, ma solo di chi dispone di ampi spazi, hangar o musei privati che un giorno o l’altro lui stesso o un suo erede avrà la necessità di liberare.
Ah già, ma questa non più l’arte elitaria di una volta, questa è l’arte democratica e movimentista che riflette, che provoca, che smaschera, che denuncia, che parla dei “gggiovani” (ai non più giovani), e ingolfa il mercato alimentando una bolla speculativa che presto o tardi esploderà bruciando chi, come in uno schema Ponzi, cercherà di vendere quando la richiesta, non foss’altro per raggiunta saturazione, sarà sopraffatta dall’offerta. A meno che tanti bambini ingenui si mettano a gridare che il re è nudo.