Il partito che non c’è più Il Pd preferisce perdere anziché perdersi e finisce per arrendersi

Il no alla Moratti consente alla sinistra di non snaturarsi, dicono i dirigenti dem. Ma rinunciare agli elettori dell’altra parte, che si trovano a disagio per la deriva estremista della destra, è una forma masochistica di resa che riduce l’ex partito della vocazione maggioritaria a un ruolo marginale

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La domanda che alle elezioni un partito serio dovrebbe porsi è la seguente: cosa conviene ai cittadini? La domanda sbagliata di un partito meno serio invece è: cosa mi conviene? Ecco, la “contraddizione lombarda” del Partito democratico sta tutta qui: nel conflitto tra ragione e passione, in termini nobili, o tra fare politica e testimoniare, in termini più terra terra.

Con la consueta brillantezza Gianni Cuperlo ha scritto un articolo su Domani per spiegare che in Lombardia «esiste una differenza irriducibile tra la possibilità di “perdere” e la ragionevole certezza di “perdersi”», che, tradotto, allude alla scelta del Pd di candidare Pierfrancesco Majorino invece di quella di sostenere Letizia Moratti. Già la ripetizione del verbo “perdere” in un certo senso è psicologicamente indicativa, come se “vincere” fosse parola bandita dal vocabolario politico di un partito che effettivamente non vince mai, e al massimo si può vincere «a prescindere» – scrive Cuperlo – cioè in questo caso camuffandosi dietro una papessa straniera per di più di destra anche se, deo gratias, più «illuminista» della destra al potere.

Veramente qui la questione non è filosofica. Letizia Moratti ha preso politicamente le distanze dalla destra: «Non è più centrodestra – ha detto sabato al Festival de Linkiesta – è una destra con un po’ di centro, molto poco. A volte si ritrova su posizioni filo-Putin o a un’Europa sovranista. In quella “destra-centro” io non mi ritrovo». A noi pare una rottura vera e propria, non un’operazione di maquillage con un po’ di cipria volterriana. E molte volte è accaduto che dentro un rapporto di forze sfavorevole la sinistra abbia saputo cogliere queste rotture nel fronte avverso almeno per provare a vincere. Ci vuole un po’ di stomaco? E sia pure: la politica è fatta così.

Il Partito democratico pare aver smarrito l’attenzione che si deve prestare ai rapporti di forza, perché altrimenti non si spiegherebbe una candidatura molto identitaria ma minoritaria come quella di Majorino, peraltro inseguendo i marginalissimi contiani che ne sporcherebbero l’immagine di sinistra giacché quelli sì sono di destra. Se sei minoranza, come fai a vincere senza i voti di un pezzo della maggioranza? Sarà banale, ma non tira un vento tale da poter gonfiare le vele di Majorino fino alla vittoria.

Per questo è del tutto erroneo ricordare, come fa Cuperlo, la sfida tra Letizia Moratti e Giuliano Pisapia vinta da quest’ultimo a Milano: intanto perché appunto si votava solo a Milano e Milano non è la Lombardia; e poi perché l’Italia della fine 22 (corsi e ricorsi) è più sposata a destra di allora, non tanto in termini numerici ma per effetto della luna di miele del governo Meloni. La questione è un’altra, come diceva sempre il maestro di Cuperlo, Alfredo Reichlin, cioè quella che dicevamo all’inizio: per i cittadini lombardi è meglio che governi Attilio Fontana alla testa della destra-destra o Letizia Moratti alla guida di un nuovo centro-sinistra (si noti il trattino) supportata quindi anche dal Pd? Perché queste sono – meglio: erano, prima che i dem scappassero con Majorino – le opzioni in campo.

Ecco perché a noi pare profondamente fuori luogo la citazione del film “Le mani sulla città” di Francesco Rosi, laddove Cuperlo ricorda le parole del sindaco di Napoli (impersonato da Salvo Randone) che spiega a un consigliere perbene che «l’unica colpa in politica è essere sconfitti», e non solo perché l’esempio c’azzecca davvero poco. Semmai la colpa di un grande partito è di correre senza nemmeno provare a vincere, cioè disertare il campo in omaggio alla propria tranquillità dell’anima, avrebbe detto Seneca: «Dunque cerchiamo il modo per cui l’animo abbia un andamento sempre uguale e favorevole e sia propizio a sé stesso e guardi lieto ai suoi beni e non interrompa questa gioia, ma resti in uno stato placido senza mai sollevarsi o deprimere. Questa sarà la tranquillità».

Ma se un partito ragiona così, guardando ad «un andamento propizio a sé stesso» ragiona male. E alla fin fine chi se ne frega dei poveri cittadini lombardi.