Questione di prospettivaLa florida e talvolta felice minoranza di donne che non fanno figli perché non vogliono

Spesso vincono gli schematismi di una rappresentazione o come vittime di un Paese in cui diventare madri è un privilegio o come un manipolo di ciniche carrieriste. Un libro corale, curato da Sciandivasci, per inquadrare l’inverno demografico con la lente giusta, che non è morale né economica

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Piazza Bellini, Napoli. Il conservatorio è a due passi, si sente un pianoforte, un uomo gli si accoda fischiettando, i passeri si accodano a lui. È settembre, quasi ottobre, c’è quel caldo dimissionario che all’ombra diventa fresco e fa pensare che basta poco per cambiare tutto, basta attraversare la strada e mettersi dalla parte dell’ombra.

È vero: all’ombra si cambia. Mangio patatine, bevo succo d’ananas, aspetto. Ho appuntamento per un’intervista con una scrittrice, ogni suo minuto di ritardo mi regala un piacere grasso e agile, mi sembra la notte dopo gli esami, il cielo sul deserto.

Perdere tempo per colpa di un altro è un piacere incomparabile. Il ritardo del treno, la fila alle poste, la lentezza del barista, di WeTransfer, del trascolorare di un ricordo: prima m’innervosivano, il più delle volte per contagio, adesso mi rallegrano.

Il ritardo di Valeria Parrella mi elettrizza, sogno di perdere il treno, non trovare un posto per dormire, finire con il rimanere qua per sempre, assunta da un fioraio e sposata a un cameriere, come in Pane e tulipani. Un po’ sogno e un po’ ho pensieri che non portano domande, nuvolette che non portano pioggia.

Penso per pensare, ed è un fatto così bello e nuovo che ha un sapore, è un boccone, mi scende in gola con un salto in lungo.
Ho trentacinque anni, e alle spalle una vita che in un’altra vita sarebbe già compiuta, ma in questa, la mia, sembra appena cominciata.

Se sembra, è? È passato un anno da quando sono quasi morta, la qual cosa mi ha arrecato un talento considerevole nel vedere il bello del brutto, il bellissimo del bello, il bello e basta: un talento che un pragmatico – sbagliando – definirebbe capacità inventiva.

Diceva Juliette Binoche nel Danno: “Chi ha subito un danno è pericoloso: sa di poter sopravvivere”.

Il danno che ho subito io è l’abbandono, il guasto irreparabile che, doloso o colposo che sia, ci fa sperimentare la morte in vita.

Poteva mai avere torto Juliette Binoche, per di più nuda tra le braccia di Jeremy Irons, nudo anche lui? Vengo dal Novecento: laggiù, qualsiasi cosa si dicesse in un film francese e/o tra un uomo e una donna nudi in un letto, era vera. Tuttavia, quando il danno l’ho subito, non sono diventata pericolosa, almeno non nel modo che intendeva Juliette Binoche, e cioè disposta a tutto, capace di tutto, fredda glaciale anedonica ferita a morte vendicativa.

Tutt’altro. Sono diventata sensibile al bagliore, sensibile alle chance, sensibile all’estate, ai menu, al tempo, al caldo, al freddo, al rumore, ai ponteggi, al pomeriggio, ai notiziari, agli artigiani, alle conchiglie, alle ragioni degli altri. Praticamente, sensibile a tutto.

Mi piace, accende, eccita ogni cosa. Durerà? Sarò così per sempre o c’è un orologio biologico anche per questo? Esploderò? Prenderò fuoco? Ci penso con divertimento mentre mangio le mie patatine, bevo il mio succo d’ananas, ordino «Me ne porta ancora?», poi mi fermo, respiro e aggiungo, con un godimento specialissimo, un’elettricità temporalesca ma interna, invisibile, silenziosa, molto a modo: «Sia di patatine che di succo, per piacere?».

Penso (eh sì: penso) a quanto sto bene adesso e qui, a piazza Bellini, a Napoli, mi sembra di esserci nata; penso a quanto sono buone le patatine (ne avevo mai mangiate di così buone?); penso a quanto è bello fare il bis; a che gigantesca invenzione sono i tavolini fuori con gli ombrelloni sopra; a quanto sono importanti le piazze.

Arrivano le patatine, il succo, il ghiaccio a parte che non ho chiesto e che mi sembra un’ottima idea, uno slancio filantropico indimenticabile, e arriva Valeria Parrella, con diciotto minuti di ritardo e una camicetta rosa pesca così identica alla sua carnagione che per un secondo mi sembra nuda.

Parliamo a lungo, anche lei beve succo mangia patatine ordina pensa ride si ferma guarda. Mi dice molte cose, parliamo di politica, di potere, di parole, dei romanzi di Liala, delle camicie di suo padre, poi le chiedo: Morirebbe per un ideale? Risposta: Morirei solo per mio figlio. Che cosa c’era di diverso, nella sua vita, prima di diventare madre? Risposta: Che sarei morta per un ideale.

Penso che vorrei abbracciarla, ma non lo faccio. Continuo a chiederle cose, un sollievo stupendo mi si allarga dentro, sono il balcone di una casa sul mare, vuota, che si apre e lascia entrare la luce e la brezza, sono la tenda che comincia a volare.

Sono sollevata perché non sono trafitta, e invece avrei potuto esserlo, avrei potuto sentire il morso di una mancanza, la piccolezza della mia esistenza, l’insensatezza di una vita che se non dà altra vita è mal spesa, la tristezza di non avere qualcuno per cui non morire per un ideale, la tristezza di non avere qualcuno per cui morire. E invece no, nonostante i trentacinque anni, l’orologio biologico ormai ridotto a cronometro, il precariato, la vita sentimentale ridicola, la carta dell’appeso che continua a uscire a ogni stesa di tarocchi che faccio: il paragone tra me, così inconclusa e inessenziale, e Parrella, così perimetrale e necessaria, tra me senza figli e Parrella con figli, tra me che in Afghanistan non ci vado perché voglio restare viva per il mio succo d’ananas e Parrella che in Afghanistan non ci va perché ha il dovere di restare viva per suo figlio, è un paragone che non mi ferisce, non mi graffia, non mi interroga: è un paragone che non faccio, e che fino a non molto tempo fa avrei fatto.

La ragione essenziale di questo libro sta in quel momento, dopo quella domanda, dopo quella risposta, dopo quel succo d’ananas, dopo quell’abbandono.

I figli che non voglio, a cura di Simonetta Sciandivasci, Mondadori, 216 pagine, 18 euro