Del caso Panzeri & Co. penso che l’essenziale – di cui discutere, su cui interrogarsi, di cui davvero preoccuparsi – non stia nel sospetto o nell’accusa di corruzione (ancora tutta da dimostrare) nei confronti degli indagati, arrestati o a piede libero, di un’inchiesta che, anche se non fosse condotta da un magistrato belga incolpevolmente paragonato, da un giornale italiano, ad Antonio Di Pietro, meriterebbe comunque di essere presa con le pinze e nei dettagli, non con la pala e all’ingrosso.
Questo purtroppo si è però abituati a fare in un Paese, che ha un’idea della giustizia costruita sul paradigma di Tangentopoli e in cui la flagranza di reato di uno diventa, per proprietà transitiva, una prova di colpevolezza per tutti e dove comunque, come disse un famoso maître à penser di Mani Pulite, non esistono innocenti, ma solo colpevoli che non sono ancora stati scoperti.
Antonio Panzeri, Eva Kaili e tutti gli altri accusati di avere parlato e fatto parlare bene del Qatar dietro laute e non dichiarate ricompense sono il dito – forse penalisticamente sporco, forse no: deciderà un giudice a Bruxelles – di una luna cattiva, ma irraggiungibile per via giudiziaria, rappresentata dall’enorme potere di condizionamento che gli Stati canaglia (al diverso grado di canaglierìa di ognuno) possono esercitare legittimamente e illegittimamente, legalmente e illegalmente, per determinare e propiziare il consenso delle opinioni pubbliche dei Paesi liberi o supposti tali.
È fenomeno che in Italia ha avuto una manifestazione letteralmente mostruosa rispetto alla Russia di Putin, per quasi un ventennio nobilitata e legittimata – gratis et amore Dei, non c’è dubbio – dai vertici dell’establishment politico e economico italiano (dico Romano Prodi e Silvio Berlusconi, mica Marco Rizzo e Giuliano Castellino), molto prima delle frequentazioni dell’Hotel Metropol da parte di Gianluca Savoini per trattare, a quanto pare per finta, la cresta sulle forniture di idrocarburi.
La stessa cosa, mutatis mutandis, ma molto più in piccolo, anzi in piccolissimo, può pure dirsi del Qatar, che ha conquistato i Mondiali di calcio senza neppure far troppo finta di non essere quello che era.
La potenza economica delle non democrazie nel mondo è cresciuta rapidamente negli ultimi decenni. Gli investimenti produttivi, finanziari e pubblicitari di società statali e non statali legate al deep state autoritario internazionale sono sempre più determinanti per l’economia dell’Occidente.
Possono comprarsi o, per così dire, affittare legalmente progetti di ricerca, cattedre universitarie, testate giornalistiche, istituzioni culturali, think tank, opinion leader, influencer e qualunque altra cosa faccia successo e immagine senza bisogno di riempire le valigette di euro in nero, che a Bruxelles sarebbero state trovate a casa di alcuni indagati. E così stanno facendo, con notevole e indiscutibile successo.
La luna che gli stolti non vogliono vedere è che la penetrazione degli Stati canaglia nel soft power del potere occidentale non viaggia lungo le linee della corruzione privata, ma dell’infiltrazione pubblica. Ed è un problema enorme per società e economie aperte e quindi esposte anche a questa forma di cattura ideologica, prima che corruttiva, che può trovare argini effettivi solo sul piano politico-culturale, non su quello repressivo-giurisdizionale.
Pensare di fermare questo fenomeno spiando le vacanze di questo e di quell’altro politico o lobbista non dichiarato è, nella migliore delle ipotesi, un’illusione ingenua e nella peggiore, e più frequente, una forma di cattiva coscienza.
Lo vediamo quotidianamente a proposito della guerra russa all’Ucraina, in cui senza bisogno di dazioni illecite e di mazzette nascoste un pezzo dell’informazione e della politica italiana si è fatta da dieci mesi altoparlante della propaganda moscovita, del «non ci sono prove che…», «però la Nato si era allargata troppo», «la Crimea è sempre stata russa» e «…ma in Donbass era in corso un genocidio». Il «non si dica che Putin non vuole la pace», cioè il refrain gratuito della campagna elettorale di Conte, mentre il famoso pacifista del Cremlino faceva crimini a livello di Srebrenica, è stato molto più invasivo e epidemico delle timide difese dei progressi del Qatar da parte degli eurodeputati socialisti, indiziati di avere difeso a gettone le condizioni di lavoro degli immigrati impegnati a costruire gli stadi per i Mondiali di calcio.
Purtroppo la corruzione politica dell’Occidente – quella che davvero costa, pesa e determina gli esiti delle elezioni, non i viaggi premio dei promoter – è oggi legalissima, perché è indissolubilmente connessa al funzionamento e alla fragilità del mercato politico e mediatico delle nostre democrazie. Questo sarebbe un bel tema di cui discutere, se l’Italian connection di Bruxelles non fosse diventata la nuova forma di scopofilia giudiziaria da cui la politica e l’opinione pubblica italiana non sembra avere intenzione di guarire.
La dispercezione sulla gravità del pericolo e del fenomeno, unita alla perversione guardonistica che fa apparire esistente e vero solo ciò che trova spazio nelle aule dei tribunali, è proprio ciò che ha portato negli scorsi anni a considerare come un atto di folklore la sfilata di Matteo Salvini e dell’attuale presidente della Camera Lorenzo Fontana con le magliette pro Putin nell’aula del Parlamento europeo e porta oggi a spiare con trepidazione e allarme le email riservate pro Qatar di Andrea Cozzolino.
Chi parla bene di Putin, chi traduce in italiano i dispacci della propaganda moscovita, chi spiega che di questo Zelensky e del suo regime nazisteggiante proprio non ci possiamo fidare, può tranquillamente fare il Savonarola contro gli accusati e arrestati di Bruxelles. Rimaniamo un Paese così, a misura di Fatto Quotidiano.