Alla conferenza stampa di fine anno Giorgia Meloni ha dimostrato per prima cosa di saper imparare dai propri errori, quando vuole. Nelle precedenti occasioni, il tentativo di sottrarsi alle domande dei giornalisti e il modo in cui aveva replicato alle loro proteste, con quel tipico tono passivo-aggressivo di chi tira il sasso e nasconde la mano, fingendo di voler fare buon viso a cattivo gioco, era stato fin qui uno dei suoi più vistosi segnali di debolezza.
Questa volta dunque riduce a pochissime parole la sua introduzione, in modo che nessuno possa rimproverarle di avere compresso il tempo riservato alle domande. Ben quarantacinque – dicasi: quarantacinque – forse non tutte irrinunciabili. Con la sua stoica disponibilità, Meloni lascia la scena ai giornalisti, che la occupano dunque a dismisura, con un rito interminabile, vagamente narcisistico, per non dire autoreferenziale, arrivato a quasi tre ore filate. Il risultato di questo cambio di metodo è un netto vantaggio per la presidente del Consiglio, che appare fin troppo paziente.
Nel merito, il paragone con l’inizio della scorsa legislatura, nel 2018, potrebbe apparire confortante sotto ogni punto di vista. Appena insediato, il governo guidato da Giuseppe Conte, con Matteo Salvini e Luigi Di Maio come vicepresidenti del Consiglio, apriva infatti uno scontro senza precedenti con la Commissione europea sulla pretesa di portare il deficit al 2,4 per cento (avventura conclusa, dopo mesi di panico sui mercati, con la ritirata suggellata dal penoso escamotage del deficit al «2,04»). Niente di paragonabile alla saggia prudenza con cui il governo Meloni ha tenuto fermi i saldi della manovra e ha ritirato senza fare polemiche l’assurdo provvedimento sui pagamenti elettronici (per non parlare del modo in cui sta impostando la ritirata sulla ratifica del Meccanismo europeo di stabilità).
Tra i suoi primi atti, il governo gialloverde varava i celeberrimi decreti sicurezza. L’analogo provvedimento del governo Meloni è una versione decisamente ammorbidita di quel progetto. Per avere un’unità di misura, basta confrontare le sanzioni previste allora per le navi delle Ong – inasprite su proposta del Movimento 5 stelle, è bene ricordare – con quelle previste oggi.
Se ne potrebbe concludere che anche in Italia, come negli Stati Uniti, la febbre populista cominci finalmente a calare. L’intelligenza con cui Meloni ha nel corso degli ultimi due anni riorientato il suo messaggio, anzitutto sulle questioni internazionali, nonché il rapporto che ha saputo mantenere con Mario Draghi, appaiono speculari alla declinante ripetitività di Salvini, ancora fermo al copione del 2018.
Grazie anche alla strategia suicida del Pd e al suo folle inseguimento del populismo grillino, Meloni ha potuto occupare il centro del sistema e presentare un volto rigoroso e ragionevole al tempo stesso, persino anti-demagogico, ad esempio nel modo in cui in conferenza stampa ha affrontato la questione delle modifiche al reddito di cittadinanza.
L’insieme di tutte queste circostanze, in parte fortunate, in parte frutto di un’accorta strategia, ha dato ieri per una volta quell’immagine di forza e determinazione che la presidente del Consiglio ha spesso cercato di trasmettere, in modi non sempre altrettanto convincenti. Ha dato l’impressione, insomma, di potercela fare: anche solo a restare in carica più di quell’anno e mezzo che è da sempre la durata media dei governi italiani, a onta di tutte le riforme istituzionali e della legge elettorale varate nel frattempo.
Contro una simile ipotesi gioca però il fatto che Meloni, proprio per esorcizzare questo problema, come tutti i suoi predecessori, si è già incamminata sulla strada della grande riforma – in questo caso apertamente presidenzialista – confermata anche ieri in conferenza stampa: il miraggio che ha già fatto naufragare tante altre leadership.
A ridimensionare le aspettative c’è poi il peso del passato, che va molto oltre la questione del Movimento sociale, del fascismo e dell’antifascismo. Il fatto è che, nonostante la duttilità e l’intelligenza tattica dimostrate fin qui, rimane in questa destra post-missina (ma in un certo senso pre-Alleanza nazionale) una fragilità strutturale, psicologica e culturale, che non riemerge solo da ogni singolo atto, dichiarazione, post su Instagram o battuta nei corridoi di Ignazio La Russa, la cui elezione alla presidenza del Senato è un errore che Meloni è costretta a espiare praticamente ogni giorno. Non riemerge solo dai mille inciampi, pasticci, marce indietro, autogol che hanno costellato la legge di bilancio, il decreto rave e praticamente ogni altra iniziativa del governo. Riemerge anzitutto, ogni volta, dalla reazione, questa sì davvero da dottor Stranamore, che suscita in Giorgia Meloni la semplice parola «Covid».
Quando si tocca questo tasto, il salto all’indietro è immediato e abissale. Tutta la prudenza, l’accortezza, la flessibilità di cui la presidente del Consiglio ha dato prova sugli altri temi cede improvvisamente il passo. Torna in campo un fattore politico-culturale inscalfibile.
Anche ieri, dinanzi alla più facile delle domande, quando avrebbe potuto cavarsela con un semplice, banale, generico appello a vaccinarsi, non ce la fa: dice che l’appello lo rivolge ad anziani e fragili, che a tutti gli altri consiglia di sentire cosa dice il loro medico (magari uno dei no vax da lei appena reintegrati). E così riporta l’attenzione sulle misure di allentamento delle quarantene e delle precauzioni per chi entra in una residenza per anziani, oltre che su medici e infermieri renitenti alla vaccinazione, proprio mentre il suo ministro della Salute cerca di arginare come può i rischi di nuove ondate provenienti dalla Cina.
Insomma, si direbbe che anche la febbre populista, come quasi tutto nella politica italiana, tenda a calare gradualmente d’intensità, ma al tempo stesso a cronicizzarsi. E che dunque l’anno si concluda con un governo Meloni che a momenti dà persino l’impressione di potercela fare, ma che non ce la farà.