Da giorni sulla stampa e in tv si continuano a mescolare, come fossero due facce della stessa medaglia, l’inchiesta internazionale sulle influenze esercitate dal Qatar nel Parlamento europeo, che ha coinvolto diversi parlamentari ed ex parlamentari del gruppo socialista, e il caso che riguarda la cooperativa gestita da moglie e suocera del deputato eletto con Sinistra e Verdi Aboubakar Soumahoro. Non stupisce che sia la destra a mettere vicende così diverse sullo stesso piano, per farne il piedistallo da cui potersi scagliare contro tutti i suoi bersagli preferiti, dalla sinistra alle ong, dai migranti ai burocrati di Bruxelles. Stupisce che lo facciano la stampa, gli opinionisti e gli intellettuali progressisti. Ma forse non dovrebbe stupire neanche questo.
Da quasi mezzo secolo, ogni mattina, quando si alza il sole, un editorialista si sveglia e sa che non importa quanto grave, esteso o circoscritto, epocale o microspico sia l’episodio comparso in cronaca giudiziaria riguardante un qualche politico di sinistra: da quel momento, volente o nolente, dovrà cominciare a scrivere un commento sulla «questione morale». Dovrà citare due righe da quella lunghissima intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari di ormai oltre quarant’anni fa, dovrà ricordare sempre gli stessi bolsi aneddoti sul mito della diversità comunista, sui militanti di una volta che preparavano tortellini e salamelle alle feste dell’Unità, se necessario allargare il quadro alla pera di Luigi Einaudi e al cappotto rivoltato di Enrico De Nicola, e chiudere quindi con «altri tempi!» o una qualsiasi analoga esclamazione.
Confesso di avere partecipato anch’io, infinite volte, a questo strano rito collettivo, manifestando le mie personali riserve sul valore dell’intervista di Berlinguer a Scalfari e ancor di più sul modo in cui nel corso del tempo è stata enfatizzata e dilatata, fino a catturare e deformare l’intera figura di Berlinguer (uomo politico che, nel bene e nel male, ha fatto e detto parecchie altre cose, assai più rilevanti) utilizzandolo di volta in volta per regolare tutt’altri conti. Resta per me ad esempio indimenticabile come, ai tempi del caso Unipol e della scalata alla Rcs, i grandi giornali evocarono la memoria del segretario del Partito comunista italiano quale icona della separazione tra politica ed economia, confondendolo forse con Milton Friedman. Ma anche questo, già allora anacronistico, è un dibattito di quindici anni fa.
Quante volte ancora dovrà finire questo mito della diversità comunista? Quante volte ancora dovrà essere infranto questo secolare tabù? L’intervista sulla «questione morale» è di quarant’anni fa, il Partito comunista non esiste più da trenta, non è possibile che di fronte a ogni piccolo o grande caso di corruzione, malversazione, malaffare, ogni volta, dobbiamo fare ricorso a un lessico famigliare del secolo scorso, che non ha più nessuna relazione con il presente, e che paradossalmente, anche quando è utilizzato per criticare quella presunzione di superiorità, finisce per alimentarla e confermarla, come se non soltanto i comunisti dovessero essere per principio immuni da qualsiasi tentazione, ma persino i loro discendenti, fino alla settima generazione. Così da giustificare, ogni volta, un nuovo dolente dibattito tra politici e giornalisti, e naturalmente attori, registi e cantautori, tutti lì a parlarci del trauma rappresentato per loro da questo o quello scandalo, e delle sofferenze del popolo della sinistra, e della mutazione genetica dei suoi dirigenti, e della perdita dell’innocenza (ma anche questa benedetta innocenza: quante volte la vogliamo perdere? Quand’è che ci possiamo rassegnare, metterci una pietra sopra e rifarci una vita?).
Siamo forse tutti abbastanza grandi, ormai, per riconoscere che ci sono i ladri, ci sono i farabutti, ci sono politici corrotti o comunque di debole tempra morale, anche a sinistra, e non solo tra quelli che ci stanno antipatici, ma non c’è nessuna «questione» che tenga insieme vicende tanto disparate, passate e presenti.