Malgrado le diverse fortune e la reciproca ostilità, entrambi i fronti del bipopulismo italiano continuano a mostrare una natura comune, confermando di essere parti diverse del medesimo sistema, non opzioni realmente alternative rispetto alle principali sfide politiche, che l’Italia dovrebbe affrontare e che il partito unico bipopulista si impegna invece a esorcizzare ed eludere con vertiginosi abracadabra retorici.
Non deve sorprendere che, nell’imminenza del voto in Lombardia e Lazio e dopo gli scontri sulla legge di bilancio e i primi provvedimenti dell’esecutivo Meloni, la maggioranza nero-verde e l’opposizione giallo-rossa enfatizzino differenze e incompatibilità, per conformare le rispettive posizioni a quella sorta di guerra di civiltà da operetta, che è in Italia lo schema obbligato della competizione bipolare.
Né deve sviare il giudizio il fatto, puramente contingente, che la coalizione demo-populista tra Partito Democratico e Movimento 5 stelle non sembri ancora ugualmente consolidata, presentandosi unita a Milano e separata a Roma. Pur incerto e diviso su tutto, non è certo il Pd a chiudere le porte, ma semmai a spalancarle all’alleanza con il M5s, che non c’è candidato segretario o dirigente di peso del Nazareno non auspichi come componente necessaria per la costruzione di un fronte progressista competitivo. Sul presupposto, ovviamente, che con il M5s la cifra progressista di un’eventuale coalizione anti-sovranista non sarebbe adulterata e contraddetta, ma semmai potenziata e inverata per inclusione.
Basta scorrere le dichiarazioni pubbliche dei migliori, come pure dei peggiori, esponenti delle due coalizioni per riconoscere un tratto comune, che è di sospetto e di dispetto per le catene che imprigionano l’Italia in una condizione di dipendenza, se non di schiavitù, immeritata e malvagia e le impediscono di risalire la china di un destino cinico e baro. Che poi si definisca tutto questo, a seconda delle circostanze, «pensiero unico liberista», «dittatura tecnocratica», «bellicismo Nato»o «euro-austerità», è del tutto accessorio, perché si tratta di espressioni fungibili, che esprimono in fondo lo stesso concetto: che l’integrazione dell’Italia nel quadro europeo e atlantico è stata la causa della rovina e oggi è l’ostacolo alla rinascita dell’Italia.
Non basta certo la prudenza dell’attuale presidente del Consiglio, per tenere in piedi la baracca dell’esecutivo senza finire in quattro e quattr’otto come Liz Truss, a dare particolari ragioni di speranza, quando, per tenere in piedi la baracca del consenso e smentire i sospetti, particolarmente ottimistici, sull’evoluzione draghiana della destra-destra, questa prudenza va rivestita e nascosta, per fare un esempio, con le intemerate di Guido Crosetto contro la Banca centrale europea.
A legare populisti e sovranisti però non è solo la storica diffidenza per l’origine e gli sviluppi del modello politico occidentale, avversato ed esecrato, a destra come a sinistra, come una forma di colonialismo culturale, politico ed economico. È anche e soprattutto la scelta di una comune tecnica di sopravvivenza, fondata sulla dissociazione della politica dalla realtà e quindi, a cascata, della responsabilità della classe politica rispetto ai risultati concreti dell’azione di governo.
Sia per i populisti che per i sovranisti, i cosiddetti vincoli esterni – che si parli della politica monetaria della Bce, della costituzione economica dell’Unione europea o delle politiche di sicurezza della Nato fa poca differenza – non sono solo un prezioso feticcio propagandistico, ma anche una straordinaria giustificazione pratica. Se la loro politica è, per l’essenziale, denunciare questo male, così pervasivo e assoluto da pregiudicare la sovranità politica nazionale, è ovvio che questo male frustrerà con disarmante facilità ogni tentativo di sovvertirne il dominio. Così anche la condotta più rinunciataria e corriva apparirà retta e obbligata.
Il bipopulismo italiano è insomma biforcuto non solo per ragioni di propaganda esterna, ma di equilibrio interno. La doppiezza è consustanziale alla sua stessa natura, perché il populismo, anche quando è eversivo, non è un ideale rivoluzionario, ma un fenomeno politico parassitario, che fomenta la frustrazione e se ne nutre, dovendo però sempre trovare il modo per non diventarne vittima. Non si possono fare le cose che si dicono, ma non si possono dire le cose che (non) si fanno.
Sia per la destra fascio-sovranista che per la sinistra demo-populista l’oltranzismo identitario e il radicalismo ideologico servono per convertire il fallimento implicito nelle promesse impossibili in una prova di eroismo e di virtù contro le soverchianti forze dei nemici dell’Italia. Mancare gli obiettivi dichiarati, anziché una smentita della buona fede e della capacità di fare quel che si era promesso, diventa una conferma dell’analisi sul complotto contro l’Italia. È vero, non siamo riusciti a fare quanto volevamo e proprio questo dimostra che avevamo ragione. La doppia verità è un rifugio, ma anche una trappola. Non se ne può uscire senza disarmare tutta la costruzione che essa serve a difendere.
Si tratta di un fenomeno del tutto diverso da quella approssimazione, mai pienamente compiuta, del reale all’ideale che anima la tensione politica verso il progresso (comunque questo venga inteso) e che intrinsecamente appartiene alla fisiologia dei migliori processi democratici.
Al contrario questa allucinatoria psicagogia delle masse e autoassoluzione del potere, con la costante invocazione del nemico esterno a dimostrazione e scusante della catastrofe interna, è caratteristica dei sistemi autoritari e totalitari, che sono fondati, prima che sull’oppressione, proprio sull’alienazione politica.