L’uomo di mezzoDavid Crosby, l’artista che ha danzato sull’orlo dell’abisso regalandoci perle di classe purissima

I suoi brani sembravano troppo avanti per gli altri, emergevano in mezzo al rock blues bombastico di fine anni Sessanta per la potenza dolce delle voci e le armonie celestiali. Con Stills, Nash & Young ha creato uno dei gruppi più influenti della sua generazione

Credits Carlo Massarini

Lo chiamavano il Sindaco.alt(ernativo) di Laurel Canyon in quegli anni in cui villette e chalet sulle colline alle spalle di Sunset Boulevard erano abitate dal who’s who della scena musicale californiana. E lui, che era nato a L.A. – uno dei pochissimi – da padre regista Premio Oscar e aveva già scritto la storia con i Byrds, era al centro della nuova scena musicale, quella che un giorno sarebbe stata definita “West Coast”. Un pivot col suo buffo look, capelli lunghi e baffoni da tricheco hippy, che scriveva, incideva, produceva e soprattutto era il riferimento per novelli residenti e musicisti tutti.

“L’uomo di mezzo”, così come il suo ruolo nei Byrds prima, e con Stills, Nash & Young poi: l’uomo delle armonie, colui che legava insieme il tutto, come è scritto nella sua bio “Long Time Gone” a proposito di una sera in cui i tre si trovano ad armonizzare in cinque con Simon & Garfunkel (ah, esserci stati…): «Il ruolo di Crosby è quello di stare fra la voce molto personale di Stills e quella alta di Graham: come è tradizione nei gruppi vocali come i Four Freshmen, è l’uomo di mezzo che fa il lavoro che fa funzionare l’accordo, anche se non te ne accorgi mai. David tiene il tutto insieme, come un cemento vellutato, il suo vocalizzo ha una morbidezza Zen». O, come ha scritto Stills nel suo messaggio d’addio, «Quel collante che ci teneva insieme mentre i nostri vocalizzi sfrecciavano, come Icaro, verso il sole».

Viene da sorridere quando si parla di armonia – il dono prezioso che a mio parere mette CSN sul podio insieme a Beatles e Beach Boys – perché la vita di Crosby è stato un mix diabolico, sì di armonia, ma anche di cadute clamorose, autodistruzione senza freni, droghe, salute e fedina penale continuamente sul filo del rasoio. Tanto che si chiedeva perché fosse toccato a Jimi e Janis e non a lui, «non so perché, ma sono stato fortunato».

Salvato dall’amore di Graham Nash che lo ha accudito come il migliore degli amici, e poi dalla vicinanza della moglie e dei quattro figli, il più grande dei quali, Raymond, era stato dato in adozione negli anni Sessanta ed era ricomparso nella sua vita quarant’anni dopo per formare un team di produzione e incisione sia in un nuovo gruppo, i CPR, sia nei suoi album solisti.

Un artista che la vita l’ha presa e gettata via e ripresa molte volte, inanellandola però di classe purissima e intuizioni geniali. Nei Byrds non era la figura centrale, il pilota era Roger McGuinn, principale compositore e voce solista, lui oltre alle armonie che erano perfette nel loro formato di folk-rock scriveva brani che erano, diremmo oggi, troppo avanti per gli altri, indirizzati verso un format più vicino al country.alt che ai singer-songwriters. Valgano per tutte “8 Miles High”, scritta sul volo che li portava al primo tour in Inghilterra e considerata inevitabilmente un classico della psichedelìa (ispirata dalla musica free-form di John Coltrane), e “Triad”, l’autobiografica, soffusa, eterea storia del suo nage à trois, rifiutata da McGuinn e interpretata magnificamente da un altro spirito libero, Grace Slick con i Jefferson Airplane.

Poi, l’incontro con Stephen Stills e con Nash, l’inglese che aveva mollato tutto, famiglia e Hollies compresi, ed era venuto a trovare nuova vita al caldo della California: l’incontro è nel cottage su Laurel Canyon di Joni Mitchell, di cui David aveva prodotto il primo album quando l’aveva scoperta (e amata) in un club in Florida dove aveva fatto tappa col suo meraviglioso adorato veliero, il Mayan (che ispirerà “Wooden Ships”, la fuga dall’apocalisse nucleare). Nash è lì, già coi cuoricini negli occhi guardando la padrona di casa, e sente David e Stephen che cantano “You Don’t Have To Cry”: gli chiede di cantarla una prima, poi una seconda e una terza volta. «In quelle tre esecuzioni avevo imparato la mia armonia. Avevo imparato come respirava Crosby, il linguaggio del corpo di Stephen quando stava per cominciare a cantare o voleva enfatizzare una parola. Quando l’abbiamo cantata in tre, la mia vita è cambiata».

E, in un certo senso, è cambiata anche la nostra e quella della musica tutta: in mezzo al rock blues bombastico che stava esplodendo sulla scia di Led Zeppelin e Deep Purple, il loro primo album mostrerà la strada verso la musica elettro-acustica, la potenza dolce delle voci, il cantautorato degli anni Settanta, e al mondo il senso della parola supergruppo.

I CSN, con l’aggiunta di Neil Young, il compare tutto amore-odio di Stills nei Buffalo Springfield, è stato uno dei gruppi più influenti nell’America di quegli anni: l’esordio in una notte d’agosto nel ’69 a Woodstock, di fronte a cinquecentomila ragazzi, «ce la stiamo facendo sotto», le prime parole sul palco, e il ruolo di emblema musicale della controcultura, valga per tutte la sua “Long Time Gone”, scritta nella notte dell’uccisione di Robert Kennedy.

Cantavano un’America che da una parte produceva grandi leader che avevano il potere e il carisma di cambiare il corso della storia (i Kennedy, Martin Luther King), mentre “l’altra parte” li uccideva. I nostri avrebbero sempre tenuto accesa la fiaccola progressiva e libertaria, ancora nei loro tour del nuovo millennio, ma il momento di massimo successo insieme non sarebbe durato molto più di una decade: il superego dei quattro e la cocaina avrebbero fatto implodere il sogno di un gruppo, e forse di un’intera generazione.

Prima di questo, però, stravolto dalla morte della fidanzata, nel 1971 Crosby si era chiuso in studio a San Francisco e con un po’ d’aiuto da parte degli amici (i Jefferson, Jerry Garcia, Joni e tanti altri) aveva realizzato quello che ai tempi fu massacrato negli Stati Uniti come una autoindulgenza, ma che qui abbiamo accolto da subito come uno degli album più ispirati del periodo: “If I Could Only Remember My Name”, vocalizzi non di questo mondo, canzoni di pura poesia e libertà sonora apparentemente senza struttura. Jam strumentale e vocale che sembra fatta in Cielo. Un viaggio onirico che ancora adesso rimane un capolavoro assolutamente unico.

Crosby ha danzato sull’orlo dell’abisso a lungo, salvato da nove mesi in prigione che interrompono la sua discesa negli inferi nel 1985 e da un trapianto di fegato nel 2004. Nel nuovo millennio si era rimesso in bolla: in tour con Stills e Nash (spesso anche in Italia, dove l’amore di un certo pubblico non è mai svanito) ma anche da solo.

Dischi belli, raffinati di scrittura e di interpretazione, veramente antitetici ai tempi, a partire da “Croz” nel 2014: «Molti della mia età avrebbero fatto un disco di cover, o di duetti. Non sarà un grande successo. Probabilmente venderà diciannove copie. Non credo che piacerà ai ragazzi, ma non lo faccio per loro. Lo faccio per me stesso, ho cose che devo far uscire fuori».

Racconta anche molto della parabola di artisti immensi, che hanno vissuto sulle montagne russe dispensandoci perle indimenticabili, il cui sound non è quello che ora va per la maggiore, ma che fanno musica vera. Senza pensare alle classifiche, senza cercare di arruffianarsi un pubblico nuovo duettando con le pop-web-star di adesso. Si chiama dignità d’artista, ed è qualcosa senza la quale grande artista non sarai mai.

Massimo rispetto per uno dei giganti della nostra generazione, scorbutico e dolce, visionario e accecato dalle circostanze, o dalle debolezze. Nel 2021 ha detto, a Rolling Stone: «Non so se mi rimangono due settimane o dieci anni di vita, non importa. Quello che importa è ciò che fai con il tuo tempo. Se stai seduto sulle chiappe e ti preoccupi della morte, l’hai sprecato. Io non lo sto sprecando, mi piace la mia vita. Prima o poi, qualcosa si romperà. Ma, adesso, la mia vita è piuttosto grandiosa».

Ciao David, e buon viaggio. Quaggiù sul pianeta hai conosciuto tutto il meglio (e tutto il peggio). Quelle armonie celesti ora puoi cantarle dove ti compete.

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