Cafiero Filippelli, chi era costui? Googlato (ci scusi il ministro Gennaro Sangiuliano) ieri da molta gente per sapere chi fosse il pittore del Rammendo del Tricolore assurto alla cronaca per merito di Giorgia Meloni: ebbene Cafiero Filippelli fu il pittore che nel 1920 dipinse quel quadro, livornese, dal nome evidentemente anarchico, il figlio poi divenne presidente comunista della provincia di Livorno: per dire come le biografie che s’intrecciano col patriottismo non sono solo quelle di donne e uomini di destra, anzi.
Dunque la presidente del Consiglio ha omaggiato la Festa del Tricolore con i toni aulici del suo neo-nazionalismo che, con qualche brivido nella schiena, stiamo imparando a conoscere da quando i Fratelli d’Italietta hanno preso il governo del Paese: «La nazione festeggia il tricolore nato nel 1797 a Reggio Emilia…», ed è un bell’incipit dedicato alla breve ma esaltante stagione illuminista sulla scia della Rivoluzione francese, come la presidente certamente saprà, e che da allora è il simbolo della libertà sempre riconquistata dagli italiani lungo il Risorgimento prima e nel secolo successivo con la Resistenza, come, di nuovo certamente, lei saprà.
Sergio Mattarella, che ha più senso storico della premier, nel suo messaggio ha immediatamente accostato il Tricolore alla Costituzione: «Il Tricolore costituisce il simbolo della unità e indivisibilità del Paese e di quel patrimonio di valori e principi comuni solennemente sanciti dalla nostra Carta costituzionale»: un riferimento alla Carta del 1948 che a Meloni non è passato nemmeno per l’anticamera del cervello di fare, lei cita pochissimo la Costituzione e mai la Resistenza, sfuggendole fin dalla più tenera età il nesso morale e storico tra patriottismo e libertà.
Giorgia Meloni, dietro l’immagine della «ricucitura degli strappi» forse voleva anche mandare un messaggio agli “alleati” della Lega e ai loro progetti laceranti sull’autonomia differenziata, ma il senso forte del messaggio sul Tricolore è altrove, nelle parole-chiave «interesse nazionale», «identità», «comunità», «nazione». Cioè nel recupero delle suggestioni non del patriottismo liberale aperto ma del nazionalismo potenzialmente aggressivo e chiuso a difesa di un «interesse» che come nell’Ottocento è destinato a confliggere con interessi altrui, costituendo dunque la naturale premessa per l’urto tra le Nazioni.
Il disegno europeo (così intensamente vissuto da David Sassoli, la cui figura viene rievocata oggi a Roma da, tra gli altri, Ursula von der Leyen e Romano Prodi) venne concepito mezzo secolo fa esattamente per superare la logica degli interessi nazionali contro altri interessi nazionali, logica che aveva disastrato l’Europa fino alla catastrofe della Seconda Guerra mondiale, puntando invece alla composizione degli interessi, alla mediazione politica, all’integrazione di popoli e culture.
Affermava Sassoli: «L’Europa ha anche e soprattutto bisogno di un nuovo progetto di speranza, un progetto che ci accomuni, un progetto che possa incarnare la nostra Unione, i nostri valori e la nostra civiltà, un progetto che sia ovvio per tutti gli europei e che ci permetta di unirci». È un progetto che è il contrario del nazionalismo, giacché europeismo e nazionalismo sono evidentemente antitetici.
L’Europa come la concepisce Meloni è infatti una camera di compensazione tra le diverse richieste delle Nazioni, un tavolo negoziale, una permanente trattativa sindacale, e certo Bruxelles è anche questo ma non è solo questo: è piuttosto l’arena di un processo storico progressivo e positivo. Il nuovo governo punta invece a una restaurazione di come eravamo cent’anni fa – italiani! –, guardate al ministro del “Merito” Giuseppe Valditara o al ministro della Cultura Sangiuliano, quello per il quale adoperare le parole straniere è «radical chic», portatori di scetticismo e fastidio verso le altre lingue in nome del primato dell’italiano e dunque polemico verso la realtà effettuale che per fortuna vede i nostri giovani sempre più integrati e affacciati sul mondo.
Il melonismo si configura dunque tecnicamente come restauratore e nazionalista in un mondo sempre più instabile e nervoso andando nella direzione opposta a quella di un nuovo ordine mondiale basato sull’integrazione e la libertà. Tira insomma una brutta aria, politicamente e culturalmente, che tenta di riesumare nel Paese i peggiori istinti provinciali, chiusi, polemici e rissosi. Il contrario della bella aria di libertà che gonfiava il Tricolore nel 1797 e nel 1945 e che oggi sventola sui palazzi delle istituzioni accanto alla bandiera europea.