C’è un autocrate, nemico dell’Ucraina, che ha mire su una sua regione. In virtù di una esigua – e in realtà integrata – minoranza linguistica, vorrebbe riscrivere le frontiere, per restaurare una grandezza amputata dai trattati del Novecento. La inonda di propaganda, offre illegalmente la cittadinanza ai suoi abitanti. Non stiamo parlando di Vladimir Putin e del Donbas (stavolta), ma di Viktor Orbán e della Transcarpazia, l’oblast ucraino che confina con l’Ungheria. Il nazionalismo ostile del premier ha contribuito a incrinare i rapporti tra Kyjiv e Budapest, il cui ostruzionismo ha rallentato sanzioni e aiuti europei al Paese invaso.
Le due nazioni si toccano per 135 chilometri. L’oblast della Zakarpatska, in ucraino si chiama così, occupa lo strapuntino di territorio, ai piedi dei Carpazi orientali, dove in questi mesi sono passati tanti rifugiati in fuga verso l’Europa. Qui la guerra, intesa come i bombardamenti criminali dell’esercito russo, non è mai arrivata. Se n’è avvertita l’eco, però. Nei blackout, nei volti degli sfollati. Anche la provincia remota ha pagato un tributo di sangue, ha pianto i suoi caduti, morti per difendere la Repubblica aggredita.
Al di là dei legami culturali, delle tradizioni da custodire e del folklore, l’ideale nostalgico di una Transcarpazia irredenta esiste nei circoli di Budapest, è un vecchio sogno dell’ultradestra magiara, più che a Iršava o Užhorod, i suoi principali centri. La realtà è diversa. Ci vivono un milione e duecentomila persone. Tra questi, 157 mila cittadini di origini ungheresi, soprattutto nei villaggi vicini al confine, nel distretto di Berehove, quello più occidentale. Il governo di Orbán tiene alla diaspora all’estero, a cui ha concesso diritto di voto, spesso intercettato dal suo partito, Fidesz.
Il primo ministro ha cercato di strumentalizzare questa comunità, che però è disincantata e pragmatica. Budapest è distante, si fa viva solo quando vuole ricattare Kyjiv. Eppure, il disegno politico della democratura illiberale è chiaro. Era ricamato sulla sciarpa indossata a novembre da Orbán che ha aperto un caso diplomatico. Il profilo del Paese riprodotto sulla stoffa non ricalcava la cartina. Inglobava in una «Grande Ungheria» territori che oggi appartengono a Slovacchia, Romania, Croazia, Serbia e, appunto, Ucraina.
Il «trauma di Trianon» si riferisce all’accordo di pace del 1920 dove l’Ungheria, sconfitta nella Prima guerra mondiale, perse due terzi della superficie e circa metà della popolazione. Lo smembramento dell’impero asburgico. È un’ossessione vecchia di cent’anni, cavalcata dall’estrema destra che ad aprile ha eletto sette deputati in Parlamento. Per questa formazione (Mi Hazank), la Transcarpazia è «spiritualmente e storicamente parte dell’Ungheria». Uno slogan interiorizzato dall’Orbán che ingigantisce la patria in un imperialismo solipsistico, come quello putiniano, perché non consulta i diretti interessati.
La regione è stata sotto al regno d’Ungheria fino al 1920. Nella sua storia recente ha attraversato denominazioni diverse, riflesso delle frontiere mobili. Rutenia subcarpatica, carpatica, o anche solo Rutenia. Subcarpazia, Transcarpazia, Ucraina transcarpatica. Oggi confina anche con Slovacchia e Romania. Nel Novecento è passata dalla Cecoslovacchia all’Ungheria, quindi all’Unione sovietica e infine all’Ucraina libera. Prima è stata brevemente anche sotto occupazione romena (nel 1919) ed è esistita un’effimera repubblica indipendente nel 1939.
Nel presente è un’area prevalentemente rurale, tra le più povere del Paese. Con il conflitto è cambiata la quotidianità. Tempo di nuovi simboli. A Mukachevo è stata trasferita in un museo la statua che troneggiava su una delle torri del castello di Palanok. Quel turul (un uccello mitologico simile a un falco) d’ottone incarnava il passato, quando la fortezza era emanazione del potere magiaro. Adesso lassù svetta il tryzub, il tridente dell’Ucraina e delle sue forze armate.
«La Transcarpazia è terra ucraina: lo è stata, lo è e lo sarà. Questo è un messaggio per il governo ungherese», ha detto al Washington Post il sindaco, Andriy Baloha. Alla rimozione dell’icona, Budapest ha risposto con una overreaction: ha convocato l’ambasciatore ucraino, mentre il ministro degli Esteri Peter Szijjarto s’è infuriato per «una provocazione non necessaria». Ma com’è possibile che i rapporti diplomatici tra due Stati siano così fragili da risentire delle delibere di un’amministrazione comunale?
Citofonare a Orbán. Le sue televisioni coprono la regione, dispensa cospicui fondi. Non solo prova a comprarsi il favore della minoranza, ma cerca di interferire nella vita di un Paese sovrano. Ha elargito passaporti, ma in Ucraina la doppia cittadinanza è illegale. Nel 2018, Kyjiv ha espulso il console ungherese nella Transcarpazia perché lo ha scoperto a emettere documenti a Berehove. Budapest, nel 2017, ha contestato la legge per promuovere la lingua ucraina che ha ridotto l’insegnamento del russo (e dell’ungherese) nelle scuole.
Nel 2020 Szijjarto ha invitato a votare candidati filo-ungheresi nelle elezioni locali. A novembre, con la scusa dell’autodeterminazione linguistica, l’esecutivo sovranista ha impedito all’Ucraina di partecipare a un summit ministeriale Nato a Bucarest. Il veto non sarà ritirato «finché [Kyjiv] non restituirà i diritti agli ungheresi della Transcarpazia», ha scritto su Facebook Szijjarto. Non ha torto la vicepremier ucraina Iryna Verschchuk quando ritiene che Orbán si rifiuti di condannare la Russia «perché forse segretamente sogna la nostra Transcarpazia».
Le tensioni con Kyjiv, insomma, risalgono a prima della guerra. Si spiegano anche così le resistenze del premier, i pacchetti di sanzioni ritardati o sabotati, come quando ha ottenuto un’esenzione per il patriarca Kirill, il predicatore di Putin nonché gran sacerdote del rascismo. Nel discorso della vittoria elettorale, Orbán ha addirittura ascritto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky alla categoria dei «nemici». Ha ottenuto condizioni di favore per continuare a finanziare la macchina bellica russa, acquistando gas e petrolio, e in dieci mesi non ha fatto nulla per diversificare. Ha bloccato (prima di cedere) diciannove miliardi di aiuti nell’ennesimo ricatto per farsi sbloccare i fondi comunitari congelati.
Mentre le altre capitali espellevano diplomatici russi in odor di spionaggio, a Budapest restava in servizio un organico elefantiaco. Due volte lo staff delle ambasciate di Varsavia, Praga e Bratislava. Sommate. Intanto dalla Transcarpazia arrivavano i profughi della guerra. L’Ungheria ne ha accolti un milione; centinaia di migliaia sono passati da qui per raggiungere Slovacchia o Romania. Užhorod, che in tempo di pace ha 112 mila abitanti, al picco dell’emergenza ospitava sessantamila rifugiati.
Scappavano dal terrorismo di Putin, di cui Orbán è un alleato de facto e neppure troppo silente. Per questo, nei sondaggi quasi metà degli ucraini lo considera un nemico. Lo stesso accostamento lo fanno i sindaci e i politici. Sarebbe ora che lo ammettesse anche l’Occidente. Eppure Praga ha conosciuto come Kyjiv la dominazione a mano armata dei russi. Sono calati nel 1848, hanno soffocato nel sangue i moti dell’Ottocento come la primavera del 1956.
Non è la prima volta che il premier si scorda di chiamare gli invasori con il loro nome. Profonde retorica quando celebra l’affrancamento dall’Urss, o si erge a tutore di una libertà che oggi in Europa sono gli ucraini a difendere. Un’Ungheria coraggiosa dovrebbe accorgersi dell’anomalia: il revisionismo revanscista di Orbán discende dal campo sbagliato della Storia, quello di Putin e degli imperialismi che hanno oppresso gli altri popoli. Un populista come lui dovrebbe capirlo.